giovedì 27 dicembre 2012

Fantaghirò, persona bella - una storia sopravvalutata

Negli anni novanta imperversava in TV sotto Natale. Chi è stato bambino a quell'epoca (quindi non io) non ha potuto sfangarsela. Di Fantaghirò ne sono state prodotte diverse serie. Era una fiction fiabesca televisiva per la regia di Lamberto Bava. Narrava le avventure di Fantaghirò, interpretata da Alessandra Martines. Fantaghirò era una principessa guerriera, spavalda e coraggiosa, che si trovava in mezzo a mille avventure, combatteva come nessun altro e viveva una travolgente storia d'amore col bel principe Romualdo, alias Kim Rossi Stuart.
In un numero imprecisato di puntate, la nostra intrepida eroina affrontava qualunque genere di avvenimento e di personaggio. Mi ricordo perfino un episodio in cui Valeria Marini interpretava una specie di fata che indossava un abito-sottoveste tutto sbrilluccicante. Sì, insomma, era una fata vestita da Valeria Marini.
La serie prendeva spunto da una fiaba narrata da Italo Calvino. Una fiaba italiana, perché Fantaghirò (come l'Amore delle Tre Melarance) è una storia prettamente italiana.
Eh, ma la Fantaghirò della fiaba era molto meno avventurosa e audace della Martines, come vedremo.


Fantaghirò, persona bella

C'era una volta un Re molto anziano che aveva tre figlie: Giulia, Maria e Fantaghirò. Non chiedetemi perché alla terza figlia abbia messo un nome tanto ridicolo, sapete come sono fatti i Re: quel che decidono, quello si deve fare, senza se e senza ma. Un giorno si era svegliato con in mente il nome Fantaghirò e così ci aveva chiamato sua figlia, punto.
Un giorno il Re vicino, che chiameremo Romualdo perché ormai tutti lo conoscono con questo nome, gli dichiarò guerra. Ma il nostro Re era anziano e malato, e non poteva guidare l'esercito. E non sapeva neppure dove trovare un generale che lo potesse sostituire. Un bel guaio, no?
“Papà, ci vado io in guerra a capo dell'esercito!”, disse Giulia prontamente.
“Tu, figlia mia? E va bene, provaci. Ma ti avverto: ti metterò uno scudiero alle calcagna, e non appena dirai una cosa da donna dovrai tornartene indietro con tutto l'esercito. D'accordo?”
“Va bene, papà.”
Ora, cosa sarà mai questa cosa da donne che non bisogna dire? Di preciso non me lo ricordo, qualcosa tipo “Oh, quante belle canne. Ci si potrebbero fare tanti rocchetti per filare!”
Ecco, una cosa del genere. Giulia la disse mentre erano in viaggio e lo scudiero riportò indietro lei e tutto l'esercito.
Poi ci provò Maria, ma anche lei cadde nell'inghippo, disse una cosa da donne e tornò indietro.
Per ultima ci provò Fantaghirò, che non disse neanche una parola, neanche una sillaba da donna, neppure quando passò davanti al negozio di scarpe più rinomato del regno (si chiama licenza poetica, questa) e perciò giunse a destinazione, ovvero ad accamparsi presso il campo da guerra o dove cavolo si accampavano gli eserciti assedianti.
Che poi non ho mai capito, se è Romualdo a dichiarare guerra al padre di Fantaghirò, perché è lei a mettersi in marcia? Non dovrebbe farlo lui? Eh no, perché serviva che l'azione si svolgesse da lui.
Infatti Fantaghirò si recò subito al castello di Re Romualdo per discutere di piani guerreschi. E anche questa non l'ho capita: si mettono d'accordo prima di battersi tra loro? Mah!
Comunque, Romualdo rimase assai colpito e corse dalla Regina Madre:
“Mamma, mamma, a me sa tanto che Fantaghirò è una donna, e io me ne sono innamorato”, le disse.
Nelle fiabe si fa in fretta, basta uno sguardo per innamorarsi. Anche meno, certe volte. Ci sono principi a cui basta vedere il ritratto di una principessa per innamorarsene perdutamente.
Che stupidi!
“Figlio mio”, rispose la Regina Madre, “per me hai preso un abbaglio. Comunque, se proprio vuoi controllare se Fantaghirò è maschio o femmina, fa' così. Portala nella sala d'armi. Se guarda i dipinti è donna, se s'interessa alle armi è uomo.”
Dunque, secondo questa brillante Regina non possono esserci uomini appassionati d'arte. Sagace. E infatti è una delle rari madri da fiaba che non ci prende mai.
Romualdo portò Fantaghirò nella sala d'armi, e lei si appassionò subito alle spade, alle balestre e ai mazzafrusti.
“Mamma, mamma”, il Re tornò dalla madre, “Fantaghirò s'è interessata alle armi, ma io sono convinto lo stesso che sia una donna e la amo.”
“Figliolo, io dico che a me sembra un uomo. E ti assicuro che io di uomini me ne intendo. Ma se tu non mi credi fai un'altra prova. Falle tagliare del pane. Se per tagliarlo se lo porta al petto è una donna, se lo taglia franco è un uomo.”
Tagliare franco il pane voleva dire tagliarlo a mezz'aria. Non so voi, ma io non ho mai visto nessuno tagliare il pane (col coltello) così. Personalmente non lo taglierei neppure portandomelo al petto, piuttosto lo poggerei su un tavolo, ma ho visto parecchie donne “di altre generazioni” tagliarlo a questo modo, poggiandoselo sul petto dove forse, in un lontano passato, stava un grembiule.
Comunque Fantaghirò lo tagliò franco (e forse si chiese anche perché Romualdo le avesse fatto una richiesta tanto bizzarra: quando mai uno che ti ha appena dichiarato guerra ti chiede se cortesemente gli tagli anche una fetta di pane, già che hai il pugnale in mano?) e il Re tornò di corsa dalla mamma.
“Mamma, mamma, l'ha tagliato franco. Ma io sono sicuro che sia una donna e la amo.”
“Figliolo, io sono sicura che ti sbagli, ma fai un'altra prova: portalo in giardino, se prende una rosa, l'annusa e se la porta al seno è una donna, se prende un garofano, lo morde e se lo mette dietro un orecchio è un uomo.”
Perché si sa che quando un uomo vede un fiore deve azzannarlo, sennò non si sente più lui.
Non garantisco però che fosse un garofano, sono andata a naso.
Comunque Fantaghirò si comportò da uomo, e non da donna. Ma questo non bastò a convincere Romualdo, sempre più preda dell'estasi amorosa.
“Mamma, mamma, ha preso il garofano, l'ha morsicato e se l'è messo dietro l'orecchio. Ma io non ho dubbi: è una donna e io l'amo.”
“Figlio mio, sei proprio senza speranza se non sai neppure riconoscere un uomo quando lo vedi. Ma ti dirò un'ultima prova. Proponigli di fare il bagno nel laghetto in giardino. Se rifiuta è una donna, se si spoglia e si tuffa è un uomo.”
Voleva aggiungere anche: “Se si spoglia e si tuffa allora dovresti vederlo da te se è maschio o femmina, anche senza ulteriori prove.” Ma poi pensò che Romualdo non avrebbe compreso concetti così complessi.
Fantaghirò rimase a bocca aperta quando Romualdo le chiese di fare il bagno nudi nel laghetto.
“Certo, certo”, tergiversò, “magari domani mattina, eh?”
Ma intanto andò a chiamare il suo scudiero, e gli ordinò che l'indomani mattina avrebbe dovuto raggiungerla al laghetto con un messaggio (finto) in cui si diceva che suo padre era tanto malato e che lei/lui doveva tornare immediatamente a palazzo.
Il mattino dopo Romualdo e Fantaghirò si recarono insieme al laghetto. Fantaghirò si guardava ansiosamente intorno per vedere dove fosse lo scudiero, quando Romualdo, sfoggiando un sorriso a trentadue denti, si spogliò e rimase davanti a lei tutto nudo come mamma l'aveva fatto.
Bel porco, se calcoliamo che lui era convinto che Fantaghirò fosse una donna.
Lei arrossì come un peperone e si lasciò scappare un “Ohibò!”, che gli storici non sono a tutt'oggi riusciti a interpretare. Era un apprezzamento? Era un grido di sconcerto? Nessuno lo sa.
Ma intanto Romualdo si era tuffato e la chiamava: “Forza, dai, spogliati e tuffati.”
“Mah, non so”, tergiversò Fantaghirò, “L'acqua mi sembra freddina.”
“Scherzi? Ma se è meravigliosa. Un brodo.”
“Sì, ma io non mi sento benissimo...”
“Ma se sembri una rosa.”
“Ma no, ho mal di gola.”
“Non si direbbe.”
E così via, e intanto la poveretta lanciava silenziosi accidenti allo scudiero che non arrivava, e proprio quando era giunta al limite e, sudando come una capra, non poteva onestamente più far credere a Romualdo che non si spogliava perché stava morendo di freddo, finalmente lo sciagurato scudiero arrivò col messaggio farlocco.
“Uh, guarda, mio papà sta malissimo, è in punto di morte, devo tornare di corsa al mio regno”, esclamò Fantaghirò con un sospiro di sollievo.
“Come, te ne vai subito?”, disse Romualdo tornando a riva, nudo e bagnato com'era.
“Sì, sì, subitissimo”, rispose Fantaghirò distogliendo rapidamente lo sguardo, “non ti scomodare a salutarmi. Ciao ciao, ci si vede alla prossima guerra.”
E schizzò via, lasciando il povero Romualdo perplesso e depresso, perché non era riuscito a risolvere il suo dilemma.
Perplesso e depresso com'era, Romualdo si rivestì e se ne andò in camera sua, e qui, appuntato al cuscino, trovò un biglietto sul quale c'era scritto:
“Sono venuta qui da uomo e me ne vado come donna. Firmato: Principessa Fantaghirò. PS: Te l'ho fatta! PPS: Complimenti, belle chiappe!”
Quando lesse questo biglietto, Romualdo non contenne più la gioia.
“L'avevo detto io che era una donna!”, esclamò.
Fece sellare il suo destriero e inseguì Fantaghirò, la raggiunse a metà strada e le chiese di sposarlo.
Lei rispose di sì, perciò tornarono insieme da papà per dirgli che con quelle nozze i due regni si sarebbero unificati e pertanto non ci sarebbe stata più nessuna guerra.
E vissero per sempre felici e contenti.
Come vedete, Fantaghirò non prese in mano la spada per combattere neanche mezza volta, altro che eroina guerriera spavalda e coraggiosa.
Vatti a fidare delle fiction in TV!

mercoledì 26 dicembre 2012

La figlia del Sole - una storia furbetta

Cosa c'è di meglio a Natale di una bella fiaba?
Questa è una storia natalizia, perché parla di madri vergini. Ora io non voglio entrare in merito della questione, perché sarebbe una cosa lunga, ma quello della madre vergine è un mito antichissimo che compare innumerevoli volte in innumerevoli religioni. È anche un mito schifosamente maschilista, a mio modesto avviso.
È anche una fiaba che parla di ex. Quegli/quelle ex che non si rassegnano a essere tali e le tentano tutte pur di tornare col vecchio partner. Non c'è inghippo che non macchinerebbero, né azione che non metterebbero in atto. Neppure un'istigazione al suicidio, per dire.
E infine è una fiaba che parla di principesse che fanno tutto loro e di principi che si lasciano trascinare dagli eventi e non prendono l'iniziativa neanche a piangere.
Basta per una sola fiaba?

La figlia del Sole

C'erano una volta un Re e una Regina. Naturalmente, e come in tutte le fiabe, come prima cosa questi ebbero un bimbo. Anzi, una bimba. E siccome erano molto ansiosi, chiamarono un veggente che prevedesse il futuro della principessina. Questo veggente scrutò le stelle e consultò le carte, o viceversa, e decretò il verdetto: “La principessina crescerà bella e sana. Ma prima del compimento del suo diciottesimo anno il Dio Sole s'innamorerà di lei e le farà partorire un figlio.”
Ora, non è che tutti prendano bene l'idea di fare un figlio con una divinità. Gli esseri umani saranno limitati, ma perlomeno sono concreti, mentre gli dei se ne stanno lontano in cielo, non è neppure possibile sposarseli. Non si assumono responsabilità dopo il concepimento. Non ti pagano neppure gli alimenti! E una poi si ritrova da sola e con un figlio a carico. No, no, il Re e la Regina non apprezzarono per nulla questa profezia e decisero che quel concepimento non s'aveva da fare. Perciò fecero chiudere la principessina in una torre dalle finestre così alte e strette che il Sole non vi si poteva affacciare.
A badare alla principessa c'era una tata, che aveva una figlia della stessa età della regale infante. E le due ragazzine crebbero insieme e diventarono amiche per la pelle, praticamente sorelle.
Un giorno, sedici anni dopo, le due ragazze stavano facendo i compiti quando a un certo punto si stufarono e cominciarono a chiacchierare, e pensarono che sarebbe stato bello vedere questo famoso Sole di cui tutti parlavano ma che loro non avevano mai visto. Fosse stata da sola, la principessa forse non avrebbe osato tanto, ma in due si sa: ci si dà coraggio. Comunque le ragazze impilarono le sedie una sull'altra e si arrampicarono fino all'unica finestrella alta e stretta che dava luce alla stanza.
E non appena la principessa si affacciò il Dio Sole la vide e se ne innamorò. Le mandò un raggio di luce e così la mise incinta.
Capito com'è facile rimanere ingravidate nelle fiabe?
E che profilattico vuoi usare su un raggio di sole? Magari una crema solare ad alto fattore di protezione?
Comunque, lei rimase incinta come da profezia, e la tata si disperò perché temeva, e a ragione, che il Re e la Regina se la sarebbero presa con lei.
Perciò quando la principessa partorì una bella bambina, la balia la prese, l'avvolse in fasce preziose e la portò a sperdere in un campo di fave.
Cioè, un po' la voleva ammazzare un po' la voleva salvare.
Nelle fiabe fanno così. Non è che i bambini abbandonati li abbandonano dove possono salvarsi, no. Sempre in qualche campo, o in un bosco, o comunque in balia delle intemperie. Però li addobbano con vesti preziose, casomai dovesse trovarli qualcuno...
La principessa compì diciott'anni e a quel punto il Re e la Regina la fecero uscire dalla torre, convinti che la minaccia ormai fosse stata evitata. E non sapevano, e non seppero mai, che era già successo tutto.
La storia della nostra madre vergine (perché dai, venir baciata dal Sole come fai a chiamarlo sesso?), per quanto ci riguarda, finisce qui, perciò possiamo anche salutarla.
Torniamo alla principessina figlia del Dio Sole. Troviamole un nome, però. Io direi di chiamarla Stefania, visto che oggi è Santo Stefano.
Okay, la piccina venne trovata da un viandante, che vedendola vestita come una principessa trasse giustamente la conclusione che fosse una principessa, e perciò la portò dal suo Re e dalla sua Regina, che non erano quelli della mamma vergine, anzi, erano quelli di un regno moltomolto lontano di lì. Lo so, è incongruente, ma è necessario per togliere di scena i primi protagonisti della fiaba, dal momento che di loro non ci deve fregare più niente.
Il Re e la Regina si affezionarono subito alla piccina e l'adottarono, e la fecero crescere insieme al loro bimbo che aveva pochi anni più della pargola.
Così Stefania e Stefano (anche lui, poverino, ha bisogno d'un nome!) crebbero insieme e quando furono grandi s'innamorarono.
Il Re e la Regina questo non lo mandarono giù. Loro volevano bene a Stefy, ma non al punto da permetterle di sposare il loro unico figlioletto. Era pur sempre una trovatella di provenienza ignota, diamine!
Pertanto regalarono a Stefy una bella casa in campagna (le volevano bene, e mai l'avrebbero lasciata in mezzo alla strada), e poi cominciarono a tampinare Stefano affinché si decidesse a trovarsi una sposa. Lui amava Stefy, ma alla fine si lasciò convincere e si scelse una bella principessa da sposare.
Si stabilì la data delle nozze e vennero diramati gli inviti ad amici e parenti. E naturalmente la nostra Stefy faceva parte della cerchia dei familiari stretti, perciò un bel giorno alcuni messaggeri bussarono alla porta della bella casa di campagna della fanciulla. La porta si aprì e... i messaggeri lanciarono un urlo di terrore, perché Stefy aveva sì aperto loro la porta, ma era senza testa!
“Benvenuti”, disse Stefy, “Ma perché mi guardate così? Ho qualcosa di strano tra i denti... uh, accidenti, sono veramente sbadata”, disse così (perché “ma dove avrò mai lasciato la testa?”, sarebbe una battuta scontata, e non chiedetemi da dove uscisse la voce dal momento che la testa -e quindi la bocca- non c'era), “quando avete bussato mi stavo pettinando e ho dimenticato la testa di sopra. Aspettate un istante che vado a prenderla.”
Salì di sopra e poi tornò tutta intera, in modo che i messaggeri avessero tempo di placare i cuori palpitanti e darsi una pettinata, perché la visione della fanciulla decollata (ovvero decapitata, non libratasi in volo) gli aveva fatto rizzare i capelli in testa.
“E cosi Stefanuccio si sposa, eh?”, disse la ragazza, “Ma che bravo, ma che bravo!”, ed evidentemente stava pensando “Ma che stronzo, ma che stronzo!”, poi aggiunse: “E che cosa posso regalare ai due sposini? Ci sono. Seguitemi in cucina.”
In cucina c'era un grande forno, e Stefania preparò una torta.
“Legno, vai nel forno”, disse. E il legno andò nel forno. “Fuoco, accenditi.” Il fuoco si accese. “Torta, infornati e avvertimi quando sei cotta.” La torta s'infornò. Dopo un po' si sentì una vocina dal forno: “Padrona, padrona, sono pronta.”
Allora Stefania entrò nel forno, perché non era uno di quei forni stitici che abbiamo in casa adesso, ma uno di quelli enormi che avevano nel medioevo, uno che ci si poteva arrostire dentro un bue intero, volendo.
Stefy entrò nel forno acceso, camminò tra le fiamme, prese la teglia con la torta e la portò fuori, poi la consegnò ai messaggeri, affinché la consegnassero ai due sposini come dono di nozze.
Come dono di nozze era decisamente misero, ma non era certo far bella figura lo scopo della nostra eroina.
Non appena presero la torta in mano, i messaggeri se la diedero a gambe levate, in preda al panico, e giunsero ansanti a palazzo.
“Che avete da ansimare?”, domandò il principe Stefano.
E loro raccontarono tutte le cose strane che aveva fatto Stefania.
“Uh, che sarà mai?”, disse la sposina, che sapeva che Stefania era la ex innamorata del principe ed era gelosa di lei, “Io quando stavo al castello le torte le facevo sempre così.”
“Davvero?”, disse Stefano che era molto ingenuo o forse no, “E mi fai vedere come fai?”
“Sì, sì, magari un giorno...”
“No, no, adesso!”, insistette Stefano. De coccio, come si direbbe.
La sposina si sentì fregata, sicuramente, ma non poteva certo essere da meno dell'odiosa ex. E quale donna resisterebbe di fronte a una sfida simile? A costo di creparci, la sposa avrebbe dimostrato di saper fare tutto quel che sapeva fare “l'altra”.
Ordinò alla legna di entrare nel forno, ma la legna non se la filò di striscio. Ordinò al fuoco di accendersi, ma dovette far lei anche qui. Poi entrò nel forno acceso per prendere la torta, e naturalmente morì bruciata, com'era prevedibile.
Per puntiglio (e non per amore!) si fanno le idiozie più madornali.
Passò del tempo, e il Re e la Regina trovarono a principe Stefano un'altra sposa. Come prima, diramarono gli inviti e i due spaventati inviati andarono a portare il suo alla nostra bella e scaltra Stefy.
Stavolta la ragazza non aprì la porta, ma l'attraversò a mo' di fantasma.
“Scusate la stravaganza”, disse quella furbacchiona, “ma mi s'è guastata la serratura e s'apre soltanto da fuori.”
Aprì la porta da fuori e lasciò passare i poveretti, che erano terrorizzati già prima di arrivare, in verità.
“Cosa posso regalare ai due sposini? Uhmmm... ci sono! Padella, va' sul fuoco. Olio, va' nella padella e friggi.”
Poi Stefy infilò le dita nell'olio che friggeva, e le dita si trasformarono in dieci bellissimi pesci. Quando furono fritti Stefy li avvolse nella carta (perché le dita le erano ricresciute subito) e li consegnò ai due inviati, che schizzarono via.
“E che sarà mai?”, disse anche questa nuova sposina, che evidentemente non voleva lasciarsi intimorire né dalle arti della ex innamorata né dalla sorte della ex sposa defunta, “Anch'io friggo sempre i pesci così.”
“Ah sì?”, rispose il principe, “Fammi un po' vedere come fai!”
“Sì, sì, un giorno, prima o poi”, tentò di tergiversare la sposa.
“No, no. Adesso!”, insistette il principe. Vuoi vedere che faceva apposta?
Fatto sta che anche questa sposa ci cascò, e quando ficcò le dita nell'olio bollente naturalmente si ustionò e morì.
Passò dell'altro tempo, e il Re e la Regina, rifiutandosi di arrendersi all'evidenza, scovarono un'altra sposa, e mandarono i soliti inviti.
“Però”, dissero ai messaggeri incaricati di portarle l'invito, “qualunque cosa faccia Stefy, voi non dovete dire nulla alla nuova sposa. Ce le state ammazzando tutte, diamine!”
I poveracci andarono da Stefy e la trovarono che volteggiava su un filo di ragnatela teso tra la sua casa e il fienile. Poi, sempre non sapendo cosa regalare, si tagliò un orecchio col coltello, estrasse dalla propria scatolina cranica un meraviglioso merletto, e si riattaccò l'orecchio come nulla fosse stato.
E come facevano i poveri messaggeri a non raccontarlo? Lo raccontarono, e anche questa sposa sostenne di poterlo fare anche lei, perciò prese il coltello, si tagliò un orecchio e morì dissanguata.
Allora il principe Stefano andò in crisi, cominciò a pensare d'essere destinato per sempre al fai-da-te (se capite cosa intendo) e si ammalò gravemente.
I medici, naturalmente, non riuscirono ad aiutarlo. Nelle fiabe i medici non sanno mai curare nulla. Servono solo a fare spallucce e a dire “Boh?”
Perché nelle fiabe l'unico dottore capace è l'amore, no?
Alla fine arrivò una specie di maga che diceva di sapere cosa poteva curare il principe.
“Questo ragazzo deve mangiare una pappa d'avena, ma d'una avena speciale che sia stata seminata, sia cresciuta, sia stata raccolta e cucinata tutto in un'ora.”
Certo, valla a trovare un'avena così!
Ma chi arrivò a questo punto?
Sì, indovinato. Stefania sostenne di poterlo fare lei.
E in effetti ci riuscì.
E poi portò la pappa d'avena al principe, che giaceva agonizzante nel proprio letto, e qui lo imboccò.
“Puah! Che poltiglia immonda!”, disse il principe sputacchiandole in faccia la pappa.
“Cosa? Tu sputacchi in faccia a me?”, esclamò irritata Stefania, “A me che sono figlia del Dio Sole? A me che sono nipote di Re?”
“Tu sei figlia del Dio Sole?”, domandarono il Re e la Regina.
“Io? Sì”, rispose Stefy.
“Tu sei nipote di Re?”
“Io? Sì.”
“Ma allora non ci sono più problemi. Sei principessa e puoi sposare nostro figlio.”
Così il principe guarì e sposò la sua principessa che da quel momento non fece mai più cose strane.
Probabilmente qualcuno si chiese perché, dal momento che lo sapeva, Stefy non abbia detto subito di essere figlia di divinità e nipote di re, risparmiando così la vita alle tre sposine.
Perché non lo disse? Perché... nessuno gliel'aveva chiesto. Ovvio.

martedì 25 dicembre 2012

Schiaccianoci e il re dei topi - una storia natalizia

AVVERTENZA: Quello riportato di seguito è il riassunto di una versione italiana dello Schiaccianoci, che in realtà è più una rilettura parecchio riveduta e corretta. Se quel che cercate è invece una versione del racconto vero e proprio di Hoffmann, vi consiglio di andare qui!

Tutti, o quasi, conoscono il balletto Lo Schiaccianoci. In meno sanno che è tratto da un racconto ancora più antico del balletto. Questo racconto è stato scritto nel 1816 da uno scrittore romantico tedesco di nome Ernst Theodor Wilhelm Hoffmann (che però cambiò il Wilhelm in Amadeus in onore di Wolfgang Amadeus Mozart, di cui era un grande ammiratore).
Il signore qui a destra è, appunto, E.T.A. Hoffmann.
Il balletto Lo Schiaccianoci, invece, è nato in Russia nel 1892 su coreografie di Marius Petipa (uno dei più grandi coreografi di danza classica mai esistiti) e musiche di Pëtr Ilic Cajkovskij (che potrai trovare anche scritto Tchaikovsky, si pronuncia comunque Ceikòski).

La storia del racconto di Hoffmann è abbastanza complessa, ma se tu prima conoscevi solo la storia del balletto noterai che ci sono molte differenze tra il balletto e il racconto. Vediamole.
Molti si riferiscono al balletto Schiaccianoci come al capolavoro di Cajkovskij, forse la sua creazione più famosa, ma lui non sarebbe stato per nulla d'accordo con quest'affermazione. Infatti in questo spettacolo tutto gira attorno ai passi di danza. Marius Petipa creò per prima cosa la coreografia, e poi diede a Cajkovskij tutte le indicazioni necessarie per scrivere la musica, comprese istruzioni precise sulla durata di ogni singolo passaggio. In pratica non gli lasciò molta libertà creativa, per questo a Cajkovskij non piacevano molto le musiche che scrisse per questo balletto.
Nel racconto la protagonista si chiama Marie e nel balletto, tutti lo sanno, prende il nome di Clara. Ma questa non è l'unica differenza.
Anche la trama è stata molto semplificata fino a diventare un semplice pretesto per i numeri di danza, che sono molti. Ecco, in breve, la trama del balletto Schiaccianoci.
Siamo in casa di Clara, che è una bambina anche se è una ballerina adulta a interpretarla, la sera della vigilia di Natale. C'è una grande festa in corso e ogni personaggio danza, insieme o da solo. Poi arriva il padrino Drosselmeier (o Drosselmeyer, che comunque si legge Drosselmàier) che porta con sé strane bambole animate, ognuna delle quali esegue un balletto "caratteristico" (la danza spagnola, la danza del tè, la danza del cioccolato e così via...).
Tra i giochi Clara trova uno schiaccianoci che attira subito la sua attenzione.
Nel cuore della notte i topi attaccano i giocattoli di Clara, e i giocattoli, capitanati dallo Schiaccianoci che nel frattempo si è animato (prima veniva impiegato un pupazzo, ora c'è un ballerino) combattono a loro volta contro i topi.
Clara sconfigge il Re dei Topi lanciandogli addosso una ciabatta.
I topi sono sconfitti e l'incantesimo si spezza. Lo Schiaccianoci diventa un principe e porta Clara nella Foresta Incantata, dove assistiamo a molte altre danze caratteristiche, tra cui la danza dei fiocchi di neve, che vedi nella foto a sinistra, e il famosissimo valzer dei fiori, fino al gran finale dove Clara e il Principe Schiaccianoci danzano insieme.
Alla fine di tutte le danze ci ritroviamo nel salotto che avevamo lasciato, dove Clara si sveglia: era stato solo un sogno (mentre nel racconto tutti accusano Marie di essersi sognata l'intera storia, ma alla fine si scopre che era tutto vero, anche le cose più strane).
Insomma, le differenze tra balletto e racconto sono tante. Però una cosa importante in comune ce l'hanno: entrambe sono storie natalizie dall'inizio alla fine!

SCHIACCIANOCI E IL RE DEI TOPI
Liberamente adattata da E.T.A. Hoffmann
LA VIGILIA DI NATALE
Quella sera in casa Stahlbaum le cose andavano in modo davvero strano.
Era la Vigilia di Natale, ma stranamente tutto era buio e silenzioso. Fritz e Marie, preoccupati, se ne stavano buoni buoni in una stanzetta che dava sul cortile perché Mamma e Papà avevano proibito loro assolutamente l'accesso al salotto e alla sala da pranzo.
Fritz aveva dieci anni e non ce la faceva proprio a stare fermo. Marie era sua sorella, aveva sette anni ed era molto più tranquilla. Ma anche a lei tutta quella calma non piaceva affatto. Per ingannare l'attesa Fritz e Marie cominciarono a chiacchierare dei regali di Natale.
In quel momento Mamma e Papà vennero a chiamarli. Era tutto pronto e i due potevano finalmente entrare nelle sale proibite.
Appena Fritz e Marie raggiunsero le stanze ogni preoccupazione e tristezza svanì. Ad attenderli c'era la più bella festa di Natale che si potesse immaginare. L'albero era altissimo, carico di mele d'oro e d'argento e di centinaia di luci. E ai suoi piedi c'erano talmente tanti regali... e poi c'era Drosselmeier, il loro padrino.
Drosselmeier faceva l'avvocato ma aveva anche un'abilità straordinaria nel riparare e costruire meravigliosi oggetti meccanici, ed era sempre lui a riparare il grande orologio a pendolo del salotto quando si rompeva. Con gli orologi Drosselmeier ci sapeva proprio fare, erano la sua passione. Ogni Natale portava a Fritz e Marie un regalo fantastico, per la cui costruzione aveva impiegato tutto l'anno. Certo, si trattava di regali fragili e delicati, con meccanismi complessi. Infatti di solito i bambini avevano il permesso di guardarli un po' e poi la Mamma, nel timore che potessero romperli, li metteva via riponendoli sullo scaffale più alto dell'armadio dei giocattoli in salotto. Questa volta Drosselmeier aveva portato un vero castello delle bambole con tanto di luci e personaggi dentro che si muovevano, danzavano, si affacciavano alle finestre e a guardarlo a lungo ti sembrava di poterci entrare (come capitò a Fritz). Ma più che guardarlo non si poteva fare, per cui alla fine Fritz e Marie si annoiarono di quel gioco bellissimo ma inutile e tornarono a occuparsi degli altri doni, quelli con cui si poteva giocare.
Tra tutti questi doni ce n'era uno che attirò subito l'attenzione di Marie. Era uno schiaccianoci di legno, modellato a forma di soldatino. Bastava infilare una noce tra i suoi denti, spingere il mantello che aveva sulla schiena (e che in realtà era una leva) e quello... CRAC!... spaccava la noce. Lo Schiaccanoci, poverino, era veramente bruttino, aveva un capoccione sbilenco, gli occhi sporgenti e una bocca che pareva un salvadanaio, ma aveva una faccia così simpatica e bonacciona che Marie decise che quello sarebbe stato il suo giocattolo del cuore e Papà glielo affidò volentieri. Ma quando Fritz decise di spaccare una noce ne scelse una veramente troppo grossa e dura per i dentini di legno del soldatino e il povero Schiaccianoci si ruppe.
Come ne fu triste Marie. Al punto da usare il suo fiocco per fasciare lo Schiaccianoci e ripararlo in qualche modo.
La festa era finita, ormai era quasi mezzanotte ma i bambini erano troppo emozionati per andare già a dormire. Così erano rimasti in salotto a riordinare i nuovi giocattoli nell'armadio. Fritz metteva i suoi soldatini sul secondo scaffale e Marie le sue bambole sul primo, quello più in basso. Lì lei aveva organizzato una deliziosa casetta delle bambole, ma questa volta nel morbido lettino non c'era una bambola, c'era il povero Schiaccianoci ferito.
La Mamma li chiamò ancora e Fritz se ne andò a letto. Marie rimase ancora un po' per fare le ultime raccomandazioni a Schiaccianoci.
La stanza era buia, ormai, anche l'albero di Natale era stato spento. In casa tutti dormivano tranne Marie. La bambina finalmente decise di andare a letto anche lei. In quel momento il grande orologio a pendolo del salotto cominciò a vibrare, come se stesse per battere le ore. Marie si voltò. Il gufo dorato che era in cima all'orologio si era mosso e aveva spalancato le ali per avvolgere il quadrante. Un istante dopo Marie si accorse che quello non era più il gufo ma il padrino Drosselmeier, che avvolgeva il suo mantello attorno all'orologio e batteva la mezzanotte con voce cupa. Allora dall'oscurità emersero mille lucette rosse, e si sentirono innumerevoli fruscii e squittii. Quelle lucette erano occhi. Occhi di topi.
Marie cercò di urlare ma era troppo spaventata. Arretrò fino all'armadio e lo urtò col gomito. Un rumore improvviso! Aveva spaccato una vetrina e si era ferita. Ma vide qualcosa di molto più spaventoso, che le gelò il sangue nelle vene e non le fece pensare più al dolore al braccio. Davanti a lei innumerevoli topi si erano disposti in file ordinate come soldati, e a capo di tutti c'era un enorme, orribile topo che aveva sette teste. E su ogni testa c'era una piccola corona d'oro.
Nello stesso istante alcune luci si accesero nell'armadio. Erano i giocattoli e i soldatini che si erano animati per combattere contro i topi.
Anche Schiaccianoci si era alzato in piedi, nonostante fosse ferito, per mettersi alla testa di quel minuscolo esercito. Klara, la bambola di Marie, lo supplicò di non combattere, ma lui non volle sentire ragioni. Schiaccianoci, il fiocco di Marie stretto sul cuore, si gettò a capofitto nella battaglia guidando i suoi impavidi giocattoli. E che battaglia fu quella!
Dappertutto in salotto si sentiva combattere, i topi erano davvero feroci, ma i soldatini e i giocattoli avevano altrettanto coraggio. Marie non sapeva che fare, voleva aiutare anche lei il suo amico Schiaccianoci.
Quando vide che l'orribile Re dei Topi stava per sopraffare Schiaccianoci non ebbe più dubbi. Si tolse una scarpa e la lanciò contro quelle sette testoline coronate. Non appena la scarpa giunse a segno tutti i topi, ma proprio tutti, anche il re, svanirono.
Marie però non se ne accorse, perché intanto il braccio aveva ripreso a farle male e lei era svenuta.
Quando Marie si svegliò era nel suo letto e il dottore la stava curando. La Mamma, accanto a lei, era molto preoccupata.
"Per fortuna", le disse, "ho visto la luce accesa in salotto. Sono passata a controllare e ti ho trovata in terra svenuta e insaguinata tra i vetri rotti e i giocattoli sparsi dappertutto. Sicuramente ti sei addormentata e sei crollata sulla vetrina dell'armadio rompendola. Ti rendi conto che potevi morire dissanguata?"
Marie cercò di spiegare la storia del Re dei Topi e della battaglia contro Schiaccianoci, ma nessuno volle crederle.
A causa delle ferite Marie si ammalò e le venne la febbre alta che la costrinse molti giorni a letto. Quando si addormentava le pareva di udire la voce di Schiaccianoci che la ringraziava.
Un giorno, quando Marie stava già guarendo, andò a trovarla il padrino Drosselmeier. Marie si arrabbiò molto con lui, perché la sera della battaglia non aveva preso le parti dello Schiaccianoci. Ma Drosselmeier disse che non aveva potuto. Poi le consegnò Schiaccianoci completamente riparato e cominciò a raccontare, a lei e a Fritz, la sua storia.

STORIA DELLA NOCE DURA
Quando nacque Perpilit era una principessina davvero deliziosa. Bella, rosea e paffuta, aveva già tutti i dentini (cosa stranissima per una neonata), che brillavano candidi in due file che parevano perle.
A corte tutti erano felicissimi per lei, solo la regina sua madre era molto preoccupata. Al punto da decidere che la principessa non dovesse mai rimanere da sola. Davanti alla porta dove dormiva la piccola c'erano sempre due alabardieri e accanto al lettino c'erano sempre due balie. La notte, poi, arrivavano altre sei balie a farle compagnia, e ogni balia doveva avere in braccio un gatto che doveva accarezzare continuamente in modo che questo facesse sempre le fusa.
Per capire il perché di tutto questo dobbiamo fare qualche passo indietro nel tempo.
Qualche mese prima la regina stava cucinando le salsicce col lardo che piacevano tanto al re, quando da sotto la stufa era uscita Topocchia, una topina che viveva lì insieme a sette figli e molti parenti. Topocchia aveva chiesto alla regina un pezzetto di lardo e lei glielo aveva concesso volentieri. Ma subito dopo erano arrivati anche i sette figli, molto maleducati, e tutti gli altri parenti, e alla fine di lardo non ce n'era più.
Il re andò su tutte le furie perché il suo piatto preferito era stato rovinato, così chiamò l'orologiaio di corte, che guarda caso si chiamava Christian Drosselmeier proprio come il padrino di Fritz e Marie, che costruì tante ingegnose trappole per topi.
I sette topi maleducati e tutti i parenti di Topocchia caddero in trappola e morirono. Topocchia, col cuore a pezzi, decise di andar via dal castello. Ma prima di partire giurò alla regina che avrebbe vendicato sulla principessina che stava per nascere la morte dei suoi sette figli. Per questo ora la regina era tanto preoccupata per la piccola Perpilit.
Ma una brutta notte le balie e i gatti si addormentarono. La Gran Balia, a capo delle altre, si svegliò all'improvviso con un senso di pericolo imminente. E non aveva tutti i torti, perché vide Topocchia nella culla di Perpilit che sembrava sul punto di mordere la principessa.
La Gran Balia strillò e Topocchia fuggì via, ma aveva fatto in tempo a colpire. Perpilit non era più una rosea e paffuta bambina, ma le era venuto un capoccione sbilenco, gli occhi sporgenti e una bocca che pareva un salvadanaio.
Il re si disperò, e siccome non gli passava per la testa che fosse colpa sua, che se solo non avesse fatto tante storie per uno stupido piatto di salsicce col lardo a quest'ora Perpilit starebbe bene, chiamò immediatamente Christian Drosselmeier e gli ordinò di guarire la principessa, altrimenti gli avrebbe fatto tagliare la testa.
Drosselmeier studiò a lungo la principessina senza scoprire nulla, ma dopo quattro settimane si accorse che a Perpilit piaceva molto schiacciare le noci con i denti per poi mangiare il gheriglio. Ebbe così un'idea.
"Bisogna trovare", disse, "la noce più dura del mondo, che non si spacca neppure a passarci su con un carro trainato da dodici buoi. Poi un giovanotto che non si sia mai rasato la barba e che non abbia mai calzato stivali dovrà spaccare la noce con i denti, dare il gheriglio da mangiare alla principessa e fare sette passi indietro ad occhi chiusi e senza inciampare. Così la principessa guarirà!"
Cose simili erano molto difficili da trovare e Drosselmeier era veramente preoccupato per il suo collo. Ma il re gli andò incontro: "Tu pensa a trovare la noce", gli disse, "che a trovare il giovanotto ci penso io!"
Così l'indomani Drosselmeier partì alla ricerca della noce più dura del mondo, mentre il re sguinzagliava i suoi messaggeri per cercare un giovanotto dai denti assai robusti.

IL SEGUITO DELLA STORIA DELLA NOCE DURA
Drosselmeier viaggò a lungo e dopo quindici anni aveva girato tutto il mondo cercando la noce durissima. Però non l'aveva trovata. L'unico posto in cui non aveva cercato era Norimberga, in Germania. Così decise di andare a vedere anche lì.
A Norimberga viveva suo cugino Christopher, che costruiva giocattoli. Visto che il destino a volte gioca strani scherzi, venne fuori che proprio Christopher aveva la noce più dura del mondo, tutta lucente e dorata. Un carro trainato da dodici buoi c'era passato su senza farle neanche un graffio! Non solo, il figlio di Christopher era un bel giovanotto, che non aveva ancora messo la barba per cui non si era ancora mai rasato, e che non aveva mai calzato stivali. In più il ragazzo, molto elegante, amava spaccare le noci con i denti per le ragazze che andavano a far spese nel negozio del padre, tanto che tutti lo chiamavano "Schiaccianoci".
Drosselmeier non ebbe dubbi: era lui il giovanotto che avrebbe infranto l'incantesimo di Topocchia. Gli costruì un marchingegno che avrebbe reso più potente il suo morso e lo portò immediatamente a corte.
Dopo tutti quegli anni Perpilit era diventata ancora più brutta, le era perfino spuntata la barba, ma erano molti i giovanotti che si erano offerti per spaccare la noce dura, allettati dal regno che la principessina si portava in dote, perché il re l'aveva promessa in sposa al giovanotto che fosse stato in grado di aiutarla. Però tutti si spaccarono i denti tentando di rompere la noce. Solo Schiaccianoci, tra lo stupore generale, ci riuscì. Non appena Perpilit mangiò il gheriglio divenne una fanciulla bellissima da non credersi e tutti si fermarono ad ammirarla, così nessuno fece più caso a Schiaccianoci che ancora stava facendo i suoi sette passi indietro.
Proprio all'ultimo passo Schiaccianoci sentì qualcosa di soffice sotto il piede, così per evitarlo fece un salto e inciampò. In quel momento diventò anche lui brutto, con la testa sbilenca, gli occhi sporgenti, la bocca a salvadanaio e la barbetta com'era stata Perpilit fino a un istante prima. Ma nessuno se ne accorse perchè stavano guardando tutti la principessa.
Quel che Schiaccianoci aveva pestato era Topocchia che, colpita a morte dal suo piede, lanciò un'ultima maledizione. Schiaccianoci non avrebbe avuto come punizione solo l'essere trasformato in creatura orribile, ma sarebbe stato anche perseguitato da suo figlio con sette teste, nato dopo la morte dei sette topi. Detto questo, Topocchia morì.
Perpilit, intanto, aveva espresso il desiderio di vedere il suo promesso sposo. Quando però si accorse che ormai era solo uno schiaccianoci lo rifiutò. Il re si arrabbiò così tanto con Drosselmeier, Christopher e Schiaccianoci per aver osato proporre un fidanzato simile alla principessa, che i tre furono costretti a fuggire.
"Povero Schiaccianoci!", commentò Marie commossa quando il padrino Drosselmeier ebbe finito di raccontare, "E che ingrata quella Perpilit!"
"Ma vedi", continuò il padrino, "non tutto è perduto. Schiaccianoci ha ancora una speranza di tornare normale e diventare principe. Dovrà solo sconfiggere il topo a sette teste e trovare una fanciulla che si innamori di lui!"
E detto questo se ne andò.

VITTORIA!
La malattia di Marie durò a lungo, ma dopo più di una settimana la bambina fu in grado di alzarsi dal letto.
Andò quindi a trovare Schiaccianoci nel suo armadio, e improvvisamente capì cosa aveva inteso Drosselmeier col suo racconto. Sì, doveva essere così, il padrino altri non era che l'orologiaio di corte, e Schiaccianoci, quello che ora stava di fronte a lei, doveva essere suo nipote, il figlio del cugino Christopher, mentre l'orrendo topo visto quella terribile sera era sicuramente il figlio di Topocchia.
Le sembrò allora di sentire Schiaccianoci farle coraggio e dichiararle il suo amore. In quel momento arrivò, a trovare i suoi genitori, proprio il padrino Drosselmeier.
"Perché", gli chiese Marie, "Quella sera non hai aiutato tuo nipote?"
"L'incantesimo mi ferma e io non posso aiutarlo!", rispose il padrino, "Ma tu sì!"
Papà pensò che anche Drosselmeier avesse cominciato a dare i numeri come Marie e gli tastò il polso per assicurarsi che non fosse malato. La Mamma invece aveva capito.
"So di cosa stai parlando", disse tristemente, "ma non riesco a spiegarlo, perciò preferisco tacere!"
Da quella notte la povera Marie cominciò a ricevere la visita del Re dei Topi. Questo la minacciava di fare a pezzi Schiaccianoci se lei non gli avesse consegnato tutti i suoi dolci e giocattoli. A Marie non restava che ubbidire, perché aveva paura che se avesse raccontato tutto a Mamma e Papà loro avrebbero detto che aveva solo sognato.
Ma un brutto giorno non ci furono più dolci o giocattoli da rosicchiare, e perfino Mamma si era accorta che in casa girava qualche strano topo che faceva a pezzi le cose di Marie. La bambina era disperata, perché senza giocattoli e dolci il Re dei Topi avrebbe finito col prendersela con Schiaccianoci.
Così corse da lui per vedere come stava, e Schiaccianoci improvvisamente divenne caldo, si mosse e le parlò.
"Ho bisogno", le chiese, "che tu mi porti una spada robusta! Così potrò sconfiggere il Re dei Topi!"
Ma dove trovare una spada? L'unica fu chiederla a Fritz, che riuscì a recuperarne una davvero magnifica, e proprio della taglia giusta. Marie la portò subito al suo Schiaccianoci.
Quella notte Marie non riuscì a dormire. Quando la pendola batté la mezzanotte le parve che il cuore le si fermasse in gola. Ma non sentì rumori strani.
Qualche istante dopo qualcuno bussò gentilmente alla porta della sua stanza. Era Schiaccianoci, che reggeva in una mano una candelina accesa dell'albero di Natale e nell'altra la spada, ora tutta insanguinata.
"Ho vinto!", disse trionfante, "Ora il Re dei Topi è sconfitto per sempre! E queste sono per te!", così dicendo Schiaccianoci consegnò a Marie le sette piccole corone d'oro che un tempo scintillavano sulle teste del Re dei Topi. La bambina mise le corone in uno scrigno sul comodino. Poi Schiaccianoci le porse la mano e continuò: "Sono venuto qui a ringraziarti e a invitarti nel mio regno! Vedrai cose così belle come non hai mai neppure sognato!"
Marie scese dal letto e seguì Schiaccianoci, fin dentro... l'armadio.

NEL REGNO DELLE BAMBOLE
Quando furono nell'armadio degli abiti Schiaccianoci scelse un vecchio cappotto di Papà e cominciò a tirare la cintura. Tirò e tirò, e d'un tratto lui e Marie non erano più a casa, ma in un magnifico e candido prato tutto scintillante e fatto di zucchero candito. Erano arrivati nel Regno delle Bambole.
Schiaccianoci volle condurre Marie alla capitale del regno, e mentre procedevano tutti gli abitanti festeggiavano Marie e volevano portarla in trionfo, perché sapevano che lei aveva salvato il principe Schiaccianoci.
Attraversarono un magnifico bosco di Alberi di Natale, dove ogni albero era decorato con frutti splendenti d'oro e d'argento che tintinnavano deliziosamente al vento. Poi c'erano bamboline di zucchero e di panpepato vive e bellissime che danzavano leggere, e fiumi di limonata, torrenti di latte e miele e bellissimi cigni che nuotavano in un laghetto.
La capitale del regno era dall'altra parte del lago e Marie e Schiaccianoci vi furono portati a bordo di una barca fatta di conchiglie tempestate di pietre preziose e trainata da due delfini.
Che gran festa ci fu! Piena di colori, e suoni, e cose buone da mangiare. Ma, proprio mentre riceveva i complimenti dai fratelli e dalle sorelle di Schiaccianoci, a Marie venne un gran sonno e le parve di addormentarsi.
Quando si svegliò era a casa sua, nel suo letto, ma ancora così emozionata per l'avventura appena vissuta, che corse a raccontarla a Mamma e Papà.
Che delusione, però. Loro continuavano a dire che Marie si era sognata tutto e che Schiaccianoci e il Regno delle Bambole non esistevano davvero. Però Marie non si perse d'animo e, per provare ai genitori di aver detto la verità, corse a prendere le sette corone del Re dei Topi. Quale stupore comparve sui visi di Mamma e Papà quando le videro. Perché senza ombra di dubbio quelle erano piccolissime corone, ed erano anche d'oro. Ma invece di credere subito alle parole di Marie si preoccuparono ancora di più e cominciarono a chiedere dove le avesse trovate. Forse le aveva rubate a qualche ospite? Marie stava per piangere quando arrivò il padrino Drosselmeier.
"Ma non ricordate?", disse lui a Mamma e Papà, "Queste coroncine erano mie, le portavo alla catena del mio orologio. Ma poi le ho regalate a Marie quando lei aveva due anni!"
Tutti tirarono un sospiro di sollievo, tranne Marie che non riusciva a convincere nessuno di aver conosciuto davvero Schiaccianoci. Anzi, Papà alla fine si arrabbiò talmente che le disse così: "Se non la pianti con queste storie su Schiaccianoci finisce che te lo butto!"
E Marie smise di parlare di Schiaccianoci. Tutti smisero di pensare a lui, perfino Fritz, l'unico che ci aveva creduto, smise di crederci. Ma non Marie, che passava sempre più tempo davanti alla vetrina dell'armadio dove se ne stava il suo Schiaccianoci.
Un giorno cominciò a parlargli: "Sai", gli disse, "io non ti trovo affatto brutto. E poi se sei diventato così è tutta colpa della principessa Perpilit. Com'è stata crudele a rifiutarti dopo che tu ti sei sacrificato per lei. Io al suo posto sarei felicissima di sposarti!"
In quel momento qualcuno bussò alla porta d'ingresso. Era il padrino Drosselmeier venuto di nuovo a riparare l'orologio. Entrò in salotto e salutò Marie, questa si voltò per salutarlo, sgranò gli occhi e svenne.
"Marie, cosa fai?", le disse la Mamma quando si riprese, "Ti sembra il caso di svenire davanti agli ospiti?"
Sì, perché Drosselmeier non era da solo. Era insieme a un delizioso ragazzino, di pochi anni più grande di Marie, molto elegante e dall'aspetto assai simpatico. Il ragazzino, disse Drosselmeier, era suo nipote, figlio di suo cugino Christopher che viveva a Norimberga e costruiva giocattoli.
I due vennero invitati a pranzo e il ragazzino riuscì subito simpatico a tutti, aveva portato tanti doni per Marie e Fritz e a fine pranzo si divertì a spaccare tante noci con i denti.
Poi chiese a Marie di mostrarle i suoi giocattoli. Quando rimasero soli il giovane Drosselmeier s'inginocchiò ai piedi di Marie. Sì, proprio così, lui era stato davvero il principe Schiaccianoci e Marie l'aveva davvero aiutato. Tutta l'avventura era successa davvero, e proprio nel momento in cui Marie aveva detto di volerlo sposare, aveva spezzato anche l'ultimo incantesimo e Schiaccianoci era tornato una persona in carne e ossa.
Commosso, il giovane Drosselmeier chiese di sposare Marie, e lei accettò con gioia. Ma visto che entrambi erano ancora bambini dovettero aspettare un bel po' di anni prima di poter realizzare il loro sogno.
Però quando poi si sposarono fecero una festa magnifica. Una carrozza d'oro tirata da cavalli d'argento venne a prendere Marie a casa, e re e regine, dame e cavalieri, marinai e pescatori, principi e principesse, sarti e contadini e migliaia di persone vennero invitati alla festa.
Marie e il giovane Drosselmeier andarono a vivere in un castello di marzapane e cominciarono a regnare felici su un paese meraviglioso. E sono ancora lì, perché il tempo delle fiabe non finisce mai!

giovedì 20 dicembre 2012

La parola del giorno è... MASOCHISMO

Quest'oggi affrontiamo una parola in tema con lo spirito natalizio, una parola che riscalda i cuori e tormenta i fegati. La parola è "masochismo".
Masochismo s.m.: tendenza a trarre piacere, sessuale e non, dalla propria sofferenza e/o umiliazione, che può essere autoinflitta oppure provocata dal partner. Per traslato, inclinazione a cacciarsi quasi con soddisfazione in situazioni umilianti, fastidiose, scomode, faticose, detestabili o tutte queste cose insieme. Il termine trae origine non da un altro termine più antico, bensì da un personaggio: Leopold von Sacher-Masoch. Chi era costui? Non era certo il masochista più famoso del mondo, come sareste erroneamente portati a credere. Be', forse un po' masochista lo era. Perché era uno scrittore. Ora, non è che perché uno diventa scrittore automaticamente s'infila nella schiera dei masochisti, perché se così fosse non si spiegherebbe un mucchio di gente che scrive, pubblica e fa un mucchio di soldi senza essere masochista. In certi casi masochista è chi li legge, ma oggi non mi va di parlare di Bruno Vespa, quindi lasciamo stare questo discorso.
Dicevo, Leopold von Sacher-Masoch era uno scrittore austriaco, nato nel 1836 e morto nel 1895, che si era prefissato un compito irrealizzabile. Forse neppure Bruno Vespa con tutti i suoi ammanicamenti ci sarebbe riuscito. Il nostro amico Leo voleva realizzare un'opera letteraria iperbolica in cui narrare tutti, ma proprio tutti, gli aspetti delle relazioni umane. Quest'opera mastodontica, probabilmente ispirata alla Commedia Umana di Balzac, doveva intitolarsi “L'eredità di Caino”. Lui l'aveva pensata divisa in sei grandi temi: Amore, Proprietà, Denaro, Stato, Guerra e Morte. Ogni tema doveva raccogliere sei romanzi, per un totale di trentasei volumi. Uso l'imperfetto, perché naturalmente il buon Leo non è riuscito a realizzare l'impresa. E chi ci sarebbe riuscito, a parte Bruno Vespa? Di fatto, riuscì a completare solo le prime due sezioni, ed è già tanto. Della prima sezione, “Amore”, fa parte un libro che in seguito è divenuto il suo più famoso, ovvero “Venere in pelliccia”. È il quinto, per l'esattezza, della sezione sull'amore. E anche quello che ha fatto nascere il termine “masochismo”.
In questa storia, un classico della narrativa erotica (che pare sia autobiografica ma qui lo dico e qui lo nego), il protagonista, Severin, s'innamora della bella Wanda e firma con lei un patto che lo rende letteralmente schiavo della donna. Schiavo non solo per i giochetti erotici, ma in tutto e per tutto. Lui è così obnubilato dall'amore, e la cosa avviene in maniera tanto graduale, che il povero Severin non può e non vuole sottrarsi all'influenza della sua dominatrice. La storia finisce con la bella Wanda che si stufa e si mette con un uomo dotato di più nerbo. Il messaggio che il romanzo... o meglio, il protagonista del romanzo, vuole trasmettere è che l'amore dura poco, un istante di passione romantica, poi non sarà altro che un continuo tentativo di sopraffazione di un coniuge sull'altro. Perché uomini e donne sono nemici naturali e possono ritrovarsi uniti solo nella fugace occasione dell'innamoramento, poi torneranno nemici. La vicinanza, la complicità e la comprensione reciproca sono impossibili. Questo secondo Severin perché, ci tengo a precisarlo, si tratta di uno degli aspetti variegati dell'amore, non della teoria sull'amore.
“Caro mio”, dice Severin a un suo amico, “in una coppia il primo che cede è fregato. L'altro, quello più svelto e meno coinvolto, se ne approfitterà subito mettendogli i piedi in testa.”
No, in realtà dice così: “Il potere della donna sta nella passione dell'uomo, e lei sa come usarlo, se lui non comprende se stesso. Un uomo ha una sola scelta: essere il tiranno oppure lo schiavo della donna. Non appena cede, si troverà col collo sotto il giogo, e la sferza gli si avventerà immediatamente contro.”
Insomma, un discorso ottimista sull'amore. “Prendi una donna, trattala male” eccetera eccetera...
E da questo romanzo prende nome, appunto, il masochismo. Che poi, Leopold non si chiamava Masoch, ma Sacher-Masoch... se avessero scelto la prima parte del cognome a quest'ora mangiarsi una sacher sarebbe molto più problematico. Anche Nanni Moretti a quest'ora avrebbe problemi.
Va detto che Leopold Sacher-Masoch era uno scrittore intelligente, arguto, spiritoso, sostenitore della tolleranza e dei diritti delle donne. Ed è un vero peccato che il suo nome ora sia associato solamente a certe pratiche erotiche, o a certi modi d'essere autolesionisti.
Ed è un peccato che il suo nome venga associato a gente a dir poco imbarazzante.
Per esempio, questo signore qui, questo del link. Quello che oggi ha spiazzato mezza rete con quest'articolo in cui sostiene che le donne vittime di violenza un po' se la cercano perché... com'è che dice? “...le donne sempre più spesso provocano, cadono nell'arroganza, si credono autosufficienti e finiscono con esasperare le tensioni esistenti.” E insomma, non lavano, non stirano, non puliscono il culo ai loro uomini. Pretendono di essere autonome, non ubbidiscono, vanno in giro mezze nude. Ekkekkazzo, alla fine pure il padrone più liberale ci può perdere la pazienza...
Ecco, uno così che scrive scempiaggini così, sapendo di finire nell'occhio del ciclone, sapendo che molta gente lo odierà per questo, ma che soprattutto ci farà una gran brutta figura color marrone... e come vuoi definirlo se non masochista?
Con tutto il rispetto per Sacher-Masoch, che invece era un bravo scrittore.

mercoledì 19 dicembre 2012

A che ora è la fine del mondo?

E così ci siamo quasi, eh?
Ancora due giorni e il fatidico 21 dicembre 2012 sarà qui.
La profezia Maya si compirà con chissà quali conseguenze...
Oppure no.
Un po' perché non esiste nessuna profezia Maya, e un po' perché anche se esistesse sarebbe campata in aria esattamente come tutte le altre profezia.
Però qualcuno che ci crede davvero c'è.
Chissà che faranno quelle persone fra due giorni?
Come decideranno di trascorrere l'ultima giornata del mondo?
Qualcuno forse si barricherà in casa. Magari qualcuno, in preda al panico, ricorrerà a gesti estremi per accorciare l'ansia dell'attesa.
In questi giorni m'è capitato di leggere notizie di povere bestie massacrate, cani o gatti che hanno avuto la sventura di imbattersi in umani mostruosi che, non si capisce perché, hanno fatto loro cose atroci: chi gli ha sparato sul muso, chi gli ha infilato un tacco in un occhio...
Ecco, se proprio qualcosa deve accadere il 21 dicembre, io spero che capiti a queste persone.
Spero che queste persone siano tra quelle convinte che il mondo finirà, e che agiscano di conseguenza.
Sono abbastanza stupide per farlo, no?

venerdì 7 dicembre 2012

Natale è alle porte

 Eh, già, Natale è alle porte e lo si capisce da tre cose: oggi a Milano ha nevicato. Oggi era Sant'Ambrogio, e c'è stata la prima della Scala col Lohengrin di Wagner (io l'ho immaginata così, poi ho scoperto d'essermi sbagliata). E da domani per tradizione si allestisce l'albero di Natale.
C'è chi l'ha già fatto, per la verità.
Io un tempo lo facevo molto prima.
Anzi, fosse stato per me avrei cominciato a fare l'albero subito dopo ferragosto.
Ma adesso non è più tanto facile.
Soprattutto perché non so dove metterlo.
Insomma, mi serve un posto dove i gatti non possano raggiungerlo.
E mangiarselo.
Una volta l'avevo messo a terra: tempo venti minuti e me l'hanno buttato giù. Ci si sono arrampicati, hanno strappato le decorazioni, hanno fatto un gran casino, insomma.
Ma dove metterlo, al di fuori della loro portata?
Loro sono gatti, si arrampicano.
Potrei infilarlo in cima alla libreria.
Ma lì non c'è spazio, e poi non lovedrei più neanch'io.
O ancora, potrei appenderlo al soffitto a mo' di lampadario.
È un'idea, no?...


martedì 4 dicembre 2012

Fiabe per Natale

A Natale è bello leggere le fiabe, e siccome a Natale tutti sono più buoni, me compresa, ho deciso di regalarvi quelle finora raccontate qui in formato mobi. Capisco che sono lunghe e leggerle da blog è scomodo. Chi possiede un Kindle, quindi, potrà scaricarsele e leggerle da lì.
Per gli altri... non so che farci. Non sono così tanto buona, dopotutto...
AVVISO IMPORTANTE, per chi arriva qui cercando fiabe da leggere ai bambini senza conoscere il mio blog. Queste fiabe NON vanno bene per i bambini perché utilizzano spesso un linguaggio "adulto" e non adatto a loro. Mi raccomando, leggete le avvertenze e non dite che non ve l'avevo detto.

La Bella Addormentata nel Bosco - una storia crudele
Biancaneve e i dodici briganti - una storia oscura
Cenerentola al sud - una storia "scialla"
La Principessa senza mani - una storia coraggiosa
L'amore delle tre melarance (bianca come il latte, rossa come il sangue)
Pelle d'Asino - una storia torbida
Il Principe Serpente - storia d'amore e di cipolle
La Principessa Snob - una storia ingiusta

La principessa senza mani - una storia coraggiosa

Non è solo dal drago che la principessa deve liberarsi,
ma anche dalla necessità di farsi liberare dagli altri.  

La solidarietà femminile non è un argomento molto popolare nelle fiabe. È un mondo strano, in cui le donne sono quasi sempre rivali tra loro, quasi mai amiche. Perfino quelle che partono volendosi bene possono finire col diventare acerrime nemiche non appena tra loro si mettono in mezzo desideri, qualità e invidiabili fortune, ma soprattutto sposi ricchi e potenti. Madri contro figlie, sorelle l'una contro l'altra, suocere e nuore e così via. In un mondo in cui le donne non hanno alcun potere se non quello di conquistare un principe o un re o semplicemente un buon partito, la concorrenza si fa sentire violenta e spietata, e non ci si può fidare di nessuno, neanche della propria madre.
Roba da fiabe, solo roba da fiabe...
Unici casi di donne che aiutano altre donne sono le fate. Possono essere fate madrine, spesso stordite, o fate generose. Poi ci sono le fate bastarde. Sono le migliori, secondo me. Sono quelle che invece di risolvere il problema della principessa di turno con un incantesimo, la spingono a scoprire e usare le proprie capacità nascoste. La fata bastarda sembra non voler aiutare la poveretta, ma invece è quella che le fa del bene più di chiunque altro. La fata bastarda è quella che va dalla principessa e le dice: “Ma che stai qui ad aspettare il Principe Azzurro? Ma lo sai che quel drago che ti tiene prigioniera tu te lo puoi fare grigliato quando vuoi? Allora forza, tira fuori le... unghie!”
La figura della principessa senza mani è abbastanza diffusa nelle fiabe. Ovviamente la cosa va interpretata in chiave simbolica, come accade spesso per le fiabe: le mani perse e ritrovate stanno a rappresentare le qualità, le risorse, le doti della principessa. Quelle che lei forse neanche sapeva di avere e che la fata le fa trovare. Anche a calci, se necessario.

Olivia, la principessa manomozza

C'era una volta una principessa di nome Olivia. Il nome è irrilevante, non importa se si chiamava Olivia oppure no. In realtà non importa neppure se fosse una principessa o no. Era una bella ragazza, questo è certo.
Ora, come prima cosa, dovrei spiegarvi come ha fatto a venirsi a trovare in quell'incresciosa situazione in cui si trovò: senza mani e abbandonata in un bosco. In tutte le storie di questo tipo che ho letto le spiegazioni sono piuttosto razziste, e non mi va di usarle.
Ne darò una versione più neutra, per così dire.
Olivia era figlia di un padre vedovo, e questo padre era un uomo molto arido, senza cuore, irascibile, crudele, che non provava minimamente affetto per la figlia.
Forse perché non se n'era mai occupato personalmente, ma aveva sempre affidato la sua cura ad altri e per lui era quasi un'estranea.
Un giorno Olivia, per un motivo qualsiasi, fece infuriare il padre, così questo le mozzò le mani e la portò a sperdere in un bosco.
E così la troviamo noi, abbandonata, disperata e incapace di aiutarsi.
Vagò a lungo, disperata, senza sapere cosa fare. E alla fine giunse nei pressi di un bellissimo giardino, dove c'era un pero carico di frutti maturi e appetitosi. Nel vederli Olivia si accorse di essere affamata. Ma senza mani non poteva cogliere le pere! Era dunque destinata a patire la fame?
Al solo pensiero le venne da piangere. Oh, poverina! Era una visione da far pietà. Perfino una roccia si sarebbe commossa. Be', non proprio una roccia, ma almeno un albero... il pero, infatti, abbassò un ramo in modo da portarle i sui frutti a portata di bocca, così Olivia poté mangiare a sazietà anche senza aiutarsi con le mani.
La cosa andò avanti per un po'. Di notte Olivia trovava rifugio in una grotta, e di giorno andava a mangiare le pere dall'albero.
Ora si dava il caso che quello fosse il giardino del Re, e che quelle pere fossero d'una varietà assai pregiata. Il giardiniere si accorse che c'era qualcosa che non andava e corse ad avvertire il Re, dicendogli che c'era uno strano animale che rosicchiava le pere lasciando su solamente i torsoli e che lui non capiva che potesse essere.
Così il giorno seguente il Re decise di scoprire quale bestia gli rubasse le pere e si appostò accanto all'albero. In questo modo poté assistere allo strano fenomeno dell'albero generoso che aiutava la povera fanciulla senza mani.
Si commosse anche il Re, che uscì dal suo nascondiglio e si fece raccontare da Olivia la sua storia.
E quando l'ebbe conosciuta, fu commosso al punto che decise di ospitare la ragazza al castello.
Il Re e Olivia legarono subito, e ben presto s'innamorarono e si sposarono.
Questa cosa non andò per niente giù alla Regina Madre del Re.
“Non c'era niente di male a ospitarla a palazzo”, disse questa, “Ma tu non puoi sposare una che non sai neppure da dove venga. Sei il re di questo paese, hai dei doveri, e uno di questi doveri è assicurarti una discendenza degna.”
Ma il Re non volle sentir ragioni perché era innamoratissimo di Olivia, perciò la sposò lo stesso. E la Regina Madre per ripicca andò a chiudersi in convento.
I due sposi erano felicissimi assieme, ma poi un brutto giorno al Re capitò una guerra che lo costrinse a partire.
Si dice così: “gli capitò una guerra”. Come fosse una disgrazia che coglie solo lui.
Comunque, a lui capitò e dovette partire. E Olivia, che era incinta, rimase da sola al castello. Da sola con uno stuolo di servi, ovviamente!
Quando fu il momento giusto, Olivia diede alla luce due gemelli, e allora successe una cosa strana e sospetta: la Regina Madre tornò a palazzo. Ufficialmente per aiutare la nuora coi bambini. In realtà era una scusa, perché alla Regina Madre i due figli di Olivia come eredi al trono andavano giù ancora meno che Olivia come regina. Perciò un bel giorno prese la nuora, la portò nel bosco, le piazzò tra le braccia i due bimbi e le disse così, papale papale:
“Vattene, sparisci e non farti più vedere. Una come te non può starci sul trono. Tornatene all'inferno o da qualunque posto tu sia arrivata e lasciaci in pace.”
Poi se ne ritornò al castello, fece fare tre statue di cera a dimensioni naturali di Olivia e dei bambini, e disse a tutti che la Regina e i principini erano morti. Organizzò i funerali, mettendo nelle bare le bambole di cera, e fu una cerimonia veramente commovente. Tutto il regno vi partecipò commosso e portò fiori sulla tomba monumentale eretta per l'occasione.
Intanto Olivia aveva preso a vagare per il bosco, disperata, coi suoi bambini che cominciavano ad agitarsi perché avevano fame e sete. E anche lei era assetata.
Giunse così a un torrente, e qui vide una donna che attingeva acqua. O faceva il bucato. O era impegnata in una qualunque altra attività si possa fare accanto a un torrente.
La donna sembrava una contadina, ma in realtà era una fata.
È così che funziona con le fate. Sembrano gente assolutamente comune, e a noi appaiono come persone qualunque, banalissime, tranne che poi fanno qualcosa che in seguito ci porta a dire “Ehi, ma quella era una fata!”
Era così anche stavolta, Olivia non l'avrebbe neppure notata se non fosse stato per il fatto che aveva bisogno di lei.
“Scusate, signora”, disse, “io e i miei bambini abbiamo tanta sete. Potete aiutarci a bere, per favore?”
La donna si voltò, la squadrò con sguardo impassibile e imperscrutabile, poi disse brusca: “E perché, non sei capace di bere da sola?”
Olivia rimase allibita. Mai prima d'allora aveva ricevuto risposte simili. No, dico, perfino un albero (un albero!) si era commosso e l'aveva aiutata, e adesso questa contadina si rifiutava di farlo?
“Ma io non ho le mani!”, protestò Olivia, “Come faccio a riempirmi la brocca?”
“Non puoi riempirtela? E non te la riempire. Inginocchiati e lappa dal torrente”, disse la donna. Poi tornò a fare quel che stava facendo e ignorò la ragazza.
Non c'era niente da fare, così Olivia, barcollando, si mise in ginocchio tenendo i bimbi in bilico sulle braccia, uno da una parte e uno dall'altra. Ma i piccini si agitavano, così quando lei si chinò per bere quelli le scapparono giù e caddero in acqua.
SPLASH!
“Aiuto, aiuto!”, strillò terrorizzata Olivia, “Affogano! Signora, aiutatemi, ve ne prego! Salvate i miei bambini!”
La donna rimase imperturbabile. “Perché, non puoi salvarli tu?”, domandò.
“Ma io non ho le mani!!! Come diavolo faccio?”, strillò Olivia, che si sentiva prossima a una crisi isterica.
“Provaci! Tuffa in acqua i moncherini!”, disse severa la donna. Poi aggiunse, con più dolcezza: “Coraggio!”
Accecata da lacrime di rabbia e di disperazione, Olivia tuffò i moncherini in acqua e... le mani le ricrebbero. Proprio così. Però lei non aveva tempo per stupirsene, perché doveva salvare i suoi bambini. Non appena li ebbe acchiappati li abbracciò così forte da lasciargli i lividi, e solo allora si accorse che aveva di nuovo le mani. E in quel momento si accorse anche che la donna non era una contadina, ma una fata, e che anche se non sembrava in realtà l'aveva aiutata moltissimo, perché l'aveva costretta ad agire. Si voltò per ringraziarla, ma la donna non c'era più.
Tipico delle fate.
Quella che si era avvicinata al torrente era una principessa che si credeva fragile e bisognosa d'aiuto, che otteneva le cose piangendo e cercando di suscitare compassione. Quella che si allontanò dal torrente era una donna adulta che aveva trovato tutta la propria energia e il proprio spirito d'iniziativa, indipendente, autonoma, determinata e forte. Una vera donna emancipata. Per questo non cominciò a vagare piangendo disperata, non andò da qualcuno a chiedere aiuto, invece si trovò una casa dove si sistemò assieme ai bambini, e con le proprie nuove energie riuscì a reinventarsi una vita. I bambini crebbero forti e belli, e anche se non erano ricchi non gli mancava nulla: erano una famigliola felice.
Torniamo al castello. Quando il Re tornò e seppe della morte di Olivia e dei bambini si sentì travolgere, schiantare, devastare dal dolore.
Invano la Regina Madre cercò di rallegrarlo. O di fargli trovare una nuova sposa.
“Guarda questa”, diceva sfogliando il catalogo delle principesse da marito, “con quelle poppe sarebbe in grado di allattare almeno quattro marmocchi per volta. Che ne dici, la vuoi? O quest'altra... c'è scritto che è un'ottima ballerina. A te è sempre piaciuto ballare. Non vorresti sposarla? E questa qui... sì, non è un gran che, ma suo padre è un re importante che conviene farsi amico.”
Ma il Re scuoteva mestamente la testa e diceva triste: “Io senza Olivia non so starci!”
Passarono sei anni.
Capitò così che un giorno, mentre girovagava per il suo regno, il Re giungesse in una zona che non conosceva e si perse. Qui vide una bella casetta con un giardino, e nel giardino giocavano due bambini che somigliavano un po' a lui da piccolo.
Bussò alla porta e andò ad aprirgli una donna.
Questa donna era Olivia, che lo riconobbe subito.
“Scusate, signora, ma mi sono perso. Potete indicarmi la strada per il castello?”, domandò il Re.
“Certo, Maestà”, rispose la donna, “Ma è tardi e stavo per servire la cena. Perché non vi fermate de noi? Potrete partire con comodo domattina.”
Ora, non dovete pensare che il Re fosse tanto cretino o sbadato da non riconoscere la sua sposa. Ma dovete calcolare che lui sapeva che Olivia era morta, e non aveva motivo di sospettare che ciò non fosse vero. Diamine, tutto il regno era stato al suo funerale e l'aveva vista nella bara! E poi questa aveva le mani, e Olivia no, e da che mondo e mondo le mani non ricrescono come le code delle lucertole. E in ogni caso, in quei sei anni Olivia, mani a parte, era davvero cambiata parecchio.
Perciò lui pensò che questa donna somigliasse moltissimo a sua moglie, ma che per ovvi motivi non potesse essere lei.
Ma si fermò volentieri a cenare con lei, e chiacchierò piacevolmente.
“Voi siete sposata?”, le chiese.
La donna parve riflettere. “Sono vedova”, rispose infine.
“Anch'io”, disse il Re.
Quando la cena fu terminata, Olivia prese da parte i bambini e disse loro: “Prima di andare a dormire chiedetemi una storia. Io vi dirò di no, vi minaccerò anche di darvi un paio di sberle, ma farò per finta, non vi preoccupate. Voi dovete insistere. Capito?”
“Sì, mamma”, risposero i bimbi, tutti contenti di partecipare a un segreto della mamma.
Perciò quando la donna sparecchiò la tavola e fece per mandare i bimbi a letto, questi le si attaccarono alla gonnella.
“Raccontaci una storia! Raccontaci una storia!”, piagnucolarono.
“No, bambini, non si può e poi non vorremo dar fastidio a questo signore, che tra l'altro è pure il nostro Re, no?”
“Raccontaci una storia! Raccontaci una storia!”
“Ho detto di no. E se non la piantate vi mollo due sberle!”
“Ma no, signora”, intervenne il Re, “non siate severa coi bambini. Se vogliono una storia, raccontategliela.”
E così Olivia cominciò a raccontare, e raccontò la sua storia, dalla nascita a quando venne abbandonata nel bosco con le mani tagliate, e poi il pero generoso, l'incontro col Re, il loro amore, la nascita dei gemelli, il tradimento della Regina Madre, la fata scorbutica che l'aiutò a ritrovare le mani, fino a quel momento in cui si trovava in quella capanna a raccontare la sua storia al Re.
In un libro fantasy a questo punto avrebbe dovuto anche raccontare di quando incominciava il racconto a partire dalla sua nascita eccetera, e si sarebbe finiti in un loop senza inizio né fine. Ma questo non è un libro fantasy, per fortuna, perciò giunta alla fine, Olivia si fermò.
Anche perché il Re le si era buttato ai piedi, in ginocchio, e le stava baciando il lembo della veste, piangendo calde lacrime di disperazione e di speranza assieme. Disperazione per essersi perso per tanti anni sua moglie, e l'infanzia dei suoi bambini. Speranza per averli ritrovati. Disperazione per il tradimento della madre. Speranza, perché sapeva che non avrebbe più perso gli amori della sua vita.
Ma come tutti i Re, era impetuoso e spesso parlava e agiva prima ancora di riflettere.
“Sarai vendicata!”, esclamò battendosi il petto, “Mia madre verrà giustiziata sulla pubblica piazza!”
“Alt, frena”, lo fermò Olivia, “Lascia stare. Perdonala. È tua madre, in fondo, portale un po' di rispetto. E poi lei non ha agito così per capriccio o interesse personale, ma solo per amor tuo e del reame. In fondo la capisco. Non voleva mettere sul trono un'estranea che, per quanto ne sapeva, poteva pure essere una spia del regno nemico.”
Vedete? Olivia era maturata così tanto che non sembrava neanche più la principessa di una fiaba.
Sarà per questo che su di lei non ci faranno mai un lungometraggio animato.
La famigliola l'indomani fece armi e bagagli e andò al castello.
La Regina Madre se ne stava nel suo studio, quando il figliolo entrò con un sorriso esagerato e tiratissimo.
“Mamma”, disse, “mi racconti ancora di come andò il funerale di mia moglie?”
La Regina Madre, che stava controllando dei conti, abbassò gli occhialini a mezzaluna e lo guardò di sbieco, quasi stanca. “Che vuoi che ti dica? È stata una cerimonia commovente. La cattedrale era gremita. Tutto il popolo era commosso. Ma lo sai, te l'ho raccontato mille volte.”
“Già, già. E perciò tu sei sicura che Olivia e i bambini fossero morti?”
“Che domande mi fai? Ma certo che erano morti. Non vorrai mica insinuare che siano stati sepolti vivi?”
“No, ma potreste aver seppellito qualcos'altro. Tre statue di cera, per esempio.”
La Regina avvampò, perché era convinta che questo dettaglio non lo sapesse nessuno. Ma certo, in realtà lo sapeva l'uomo che aveva modellato le statue. Magari aveva parlato. “Che intendi?”, borbottò la donna.
“Basta commedie, mamma. Ho scoperto il tuo inganno. Olivia, entra pure.”
La porta si aprì ed entrò Olivia, tenendo i gemelli per mano.
"Come me lo spieghi, questo?", disse il Re.
La Regina Madre ammutolì e non spiegò niente. Poi sbiancò. Poi arrossì. Poi si alzò e se ne andò testa alta. Tornò a chiudersi in convento e disse che da allora in poi di quel che capitava al regno non gliene importava più.
E da quel momento il Re e Olivia vissero per sempre felici e contenti. Soprattutto Olivia, che ormai sapeva di valere più di quanto credessero gli altri.

domenica 2 dicembre 2012

La principessa snob - una storia ingiusta

Nel mondo delle fiabe basta poco a rendersi irriconoscibili...
"Il mio ammmore mi tratta come una principessa”, dice la fanciulla con occhi sognanti.
“Il vero uomo tratta la sua donna come una principessa”, dicono i messaggini amorosi che girano in rete.
Ma com'è che i Principi trattano le Principesse nelle fiabe? Mica sempre tanto bene.
Quella che segue è una fiaba abbastanza tipica: è la classica storia della principessa viziata e “snob” che, per un motivo o per un altro, rifiuta il suo pretendente, e questo si vendica umiliandola, svergognandola e riducendola a uno zimbello. Facendole pentire di avergli detto no.
La vendetta è diabolica e crudele, la fanciulla che ha osato rifiutarsi o alzare la testa ne subisce di cotte e di crude finché non si arrende. Finché non “abbassa la cresta e capisce chi è che comanda”.
La principessa snob di oggi, nella sua interpretazione più lieve, è la classica bella ragazza che “se la tira” e dà il due di picche allo spasimante, e lui allora si vendica diffondendo maldicenze sul suo conto. È quella donna che si sente graziosamente apostrofare con termini tipo "brutta troia ma chi ti credi di essere?" solo perché ha detto a uno che ci provava "no, grazie, ma non sei il mio tipo".
Nelle interpretazioni della cronaca sono tutte quelle donne che quotidianamente subiscono soprusi, violenze, offese, solo perché hanno detto “no” oppure “basta” a un uomo.
Ed era una cosa che succedeva anche nelle fiabe, guardate un po'.
Perciò pensiamoci due volte prima di desiderare di essere trattate come principesse...
PS: la storia è veramente ingiusta, per questo ho cercato di alleggerirla con un fumetto frivolo e stupido. Non abbiatevene a male...

PPS: G dice che forse dovrei smetterla di disegnare donnine coi capezzoli al vento. Magari ha ragione, ma... è così divertente disegnarle!

La principessa snob

C'era una volta una bellissima principessa che, nel dubbio, chiameremo Florinda (è il primo nome che m'è venuto in mente).
Florinda era sempre stata amata e viziata dal Re suo Papà, e poiché non si era ancora resa conto di vivere in un mondo fondamentalmente maschilista, pensava di poter continuare a fare i comodi propri vita natural durante. In effetti un po' se la cercò, però poi gliela fecero pagare con gli interessi, e questo non è giusto. Ma vediamo come andarono le cose.
Come dicevo, il Re stravedeva per questa figlia e l'aveva viziata moltissimo. Un giorno le disse:
“Florinda mia, è ora che ti trovi un marito. Ormai hai l'età e anche tanti pretendenti, fra principi e re.”
“E lo so”, rispose la ragazza infilandosi in bocca una manciata di violette candite, “ma purtroppo non so quale scegliere.”
Il Re ebbe un'idea: “Organizziamo le Primarie dei Principi Azzurri, così puoi capire quale ti piace di più.”
Le Primarie dei Principi Azzurri fu una lotta senza quartiere di discorsi, serenate e promesse elettorali, ma alla fine vinse il Re Granato (non ha niente a che fare col calcio perché la storia risale a ben prima dell'invenzione di questo nobile sport) con uno stracciante 90%. E bisogna dire che questo Re era veramente il più bello, il più intelligente, quello dotato di miglior parlantina, il più simpatico eccetera.
Ci fu gran festa, naturalmente, per il fidanzamento, con un gran banchetto e tante squisitezze. Tra i frutti offerti a fine cena c'erano anche i melograni. Ora, bisogna sapere che il regno del Re Granato era ricchissimo, ma lì i melograni non s'erano mai visti. Ecco perché il Re Granato, quando gli cadde in terra un chicco di melograno, lo raccolse e lo mise da parte: pensava che fosse chi sa che di prezioso, poverino.
Ma la cosa non sfuggì a Florinda, che trovò il gesto disdicevole e non adatto a un Re. E immediatamente si pentì d'averlo scelto.
“Brutto pezzente spilorcio!”, sbottò, “Schifosissimo morto di fame, ma che fai? Raccogli pure i semini da terra? E io dovrei sposarmi un simile pitocco? Ma non ci penso neppure. Sparisci, vattene, crepa: il fidanzamento è rotto.”
Così dicendo gettò in terra il tovagliolo e si allontanò, sdegnata.
Il povero Re Granato, che era stato tanto contento quando aveva vinto le Primarie dei Principi Azzurri perché la Principessa Florinda gli era sempre piaciuta moltissimo, ora ci rimase veramente mortificato e deluso, sia per l'abbandono che per la figuraccia fatta davanti a tutti.
Ma non era tipo da arrendersi e da mandar giù le offese, perciò decise di vendicarsi.
Finse di andarsene, poi si travestì e si fece assumere dal Re padre di Florinda come giardiniere.
Nessuno lo riconobbe. Nelle fiabe i principi e le principesse sono maghi dei travestimenti. Certe volte basta che mutino abbigliamento o si mettano un cappello diverso perché nessuno li riconosca più. Il che è utile in certi casi, ma fastidiosissimo in altri. Ve l'immaginate se nessuno dovesse riconoscervi più solo perché vi siete cambiati d'abito o vi siete fatti lo shampoo?
Comunque Re Granato si travestì da giardiniere e nessuno si accorse che era lui, si trasferì nella casa del giardiniere, che giustamente era in giardino, e vi trasportò un grosso baule. In quel baule c'erano tutte le cose che avrebbe portato in dono alla principessa Florinda se si fossero sposati. Ora pensò di usarle per il suo diabolico piano di vendetta.
Un giorno, perciò, stese in mezzo al bucato un meraviglioso scialle intessuto d'oro, e lo sistemò in modo che dalla finestra della stanza della principessa si vedesse bene.
Infatti la principessa si affacciò, e vedere lo scialle e desiderarlo fu tutt'uno.
E siccome era viziata e pensava che tutto le fosse dovuto, andò dal giardiniere a informarsi.
“Ragazzo, ma di chi è quel bello scialle?”
“È mio, perché?”, rispose lui fingendo di cadere dalle nuvole.
“Perché mi piacerebbe tanto averlo e vorrei comprarlo. Quanto vuoi?”
“Non è in vendita”, aggiunse prima che la pulzella potesse cambiare idea, “però potrei regalarvelo se mi permetteste di dormire stanotte nella prima stanza dei vostri appartamenti.”
“Screanzato cafone!”, si offese la principessa, “Ma come osi chiedermi tanto?”
Ma quello scialle le piaceva veramente un mucchio e non voleva perderselo, così ci pensò e ci ripensò, e poi si disse: “Ma sì, chi vuoi che venga a saperlo se viene a dormire in quella stanza? E poi non è mica in camera mia.”

Così accettò, e il giardiniere passò tutta la notte nella prima stanza degli appartamenti di Florinda.
Un altro giorno il giardiniere mise a stendere un secondo scialle, stavolta intessuto d'oro e d'argento. Come prima la principessa lo volle, e come prima il giardiniere domandò di passare la notte da lei, ma stavolta nella seconda stanza dei suoi appartamenti.
Capite dove punta, il malandrino?
No?
Andiamo avanti.
La principessa si fece qualche scrupolo in più perché la seconda stanza era più vicina della prima alla camera da letto, ma alla fine accettò perché “tanto chi vuoi che lo venga a sapere?”
A voi sembrerà che non stesse facendo nulla di strano, ma rifletteteci bene: lei stava ospitando un uomo nei suoi appartamenti privati. Se qualcuno l'avesse beccata si sarebbe rovinata la reputazione per sempre, anche se con quest'uomo non si fosse scambiata neanche un bacetto a fior di labbra. Erano altri tempi... no?
Qualche giorno dopo il giardiniere decise di giocare pesante e mise a stendere un abito da sera intessuto d'oro, di perle e di diamanti. La principessa come lo vide non capì più niente e decise che quel vestito doveva essere suo a tutti i costi. Sì, a dirla oggi un abito del genere pare una cosa kitsch da morire, ma guardatela in un'altra ottica. Fate conto di essere una fashionista sfegatata (tutte le principesse lo sono) e che vi mettano sotto il naso il pezzo più ambito, desiderabile, raro e prezioso dell'ultima sfilata del miglior stilista del mondo. Quello che tutte vogliono e non possono avere. E voi invece potete averlo in cambio di un'inezia: far dormire un poveraccio nei vostri appartamenti. Sì, se vi scoprono ci rimettete la reputazione. Ma se non vi scoprono (e perché mai dovrebbero scoprirvi, visto che nei vostri appartamenti non ci viene nessuno, se voi così ordinate?) sarete l'invidia e il vanto del jet set per i secoli a venire.
Stavolta il giardiniere puntò più in alto, perché chiese di dormire nella terza stanza, che poi era l'anticamera della stanza da letto della principessa.
Lei esitò per almeno dieci secondo, ma poi accettò.
“Che male c'è, in fondo?”, pensò.
Quella notte, perciò, il giardiniere si raggomitolò davanti alla porta della stanza da letto della principessa, predisponendosi a dormire.
Adesso avete capito il suo piano?
Non ancora?
Andiamo avanti. Nel cuore della notte la principessa si svegliò perché sentì un gran rumore: era il giardiniere che batteva i denti e tremava tutto, e tremando urtava la porta e la faceva scricchiolare.
“Ma che stai facendo?”, bisbigliò inviperita Florinda andando in anticamera, “Smettila subito, prima che ti senta qualcuno.”
“Mi dispiace, maestà, ma ho freddo”, disse quello battendo i denti, “questa stanza è gelata.”
“A me non sembra.”
“E a me sì. Lo vedete che pelle d'oca ho?”
“Be', non posso farci niente.”
“Uhmmm...”, il giardiniere finse di rifletterci, “forse qualcosa potete fare. In camera vostra fa più caldo. Potrei venire a dormire lì.”
“In camera mia? Non se ne parla neanche!”
“Va bene”, disse il giardiniere. E riprese a battere i denti con foga facendo più rumore di un ballerino di flamenco con le nacchere.
“D'accordo, d'accordo, entra”, gli ordinò la principessa, decisamente contrariata, “Presto, prima che si svegli tutto il castello.”
Il giardiniere-Re entrò, sorridendo maliziosamente tra sé, poi si accoccolò accanto alla porta e chiuse gli occhi, mentre la principessa si rimise a letto con un diavolo per capello.
Adesso l'avrete capito il suo piano, no?
Come no?
Eh, ma siete di coccio!
E va bene, proseguiamo.
Passò un'altra mezz'oretta e di nuovo la principessa si svegliò per quel rumore: RAT-TAT-TAT...
“Eh, ma insomma! Cosa c'è ancora?”, sbottò mettendosi a sedere sul letto.
“Ho freddo, maestà!”, disse il giardiniere battendo i denti da far pietà, “Sto gelando!”
“Non dire sciocchezze, qua non fa affatto freddo!”
“Eh, voi dite così perché siete sotto le coperte”, rispose il ragazzo tremando violentemente contro lo stipite della porta, “Magari... se venissi anch'io sotto le coperte con voi mi scalderei e smetterei di tremare.”
“Cosa??? Tu, schifoso plebeo, dormire nello stesso letto con me che sono una principessa di sangue??? Dovrei farti tagliare la testa per questa proposta indecente!”, sibilò la principessa.
Poi pensò che se quello avesse continuato a far fracasso tremando, avrebbe svegliato qualcuno, e se qualcuno avesse trovato un uomo che dormiva nella sua stanza... povera lei! Sarebbe rimasta svergognata per sempre, “E va bene, d'accordo. Vieni qui”, e gli fece posto sotto le coperte accanto a lei.
E adesso spero che avrete capito quali fossero i piani del giardiniere, diamine!
Comunque i due giovani stavano lì nel letto, l'uno di fianco all'altra. E sapete come vanno queste cose, no? Prima ciascuno di loro se ne stava in bilico sulla sponda estrema. Poi ognuno si prese spazio e si avvicinò. Poi come per caso le labbra del giardiniere si trovarono su quelle della principessa. E ancora per caso, le mani scivolarono sui corpi, le lingue si intrecciarono, le camicie da notte volarono via, e senza quasi neanche accorgersene la principessa e il giardiniere finirono col fare l'amore.
Almeno credo, e spero, perché la cronaca non entra nei dettagli. Certo, è sempre possibile che il Re-giardiniere una volta nel letto le abbia semplicemente alzato la camicia da notte e l'abbia stuprata, e che lei non abbia gridato aiuto perché lui le tappava la bocca o perché temeva di essere scoperta. Perché già all'epoca una donna quando veniva stuprata veniva praticamente ritenuta colpevole, perché la sua sola presenza poteva essere considerata una “tentazione” per lo stupratore che per questo appariva innocente o quasi (o comunque più di lei). E poi una donna stuprata denunciando il suo assalitore avrebbe dovuto confessare di non essere più vergine, e questo la disonorava a vita. Insomma, all'epoca gli stupri non venivano quasi mai denunciati. Aggiungiamoci pure che alla fin fine era stata lei a invitare il giardiniere nel suo letto... ma chi mai avrebbe creduto alla sua innocenza?
Però questa è una fiaba, anche se è una fiaba ingiusta, perciò forse è meglio lasciarle un pizzico di romanticismo e credere che Florinda e il giardiniere abbiano fatto l'amore di comune accordo.
Da quella sera, anzi, dal mattino dopo, il giardiniere non mise a stendere più nulla di strano nel bucato e si limitò a farsi i fatti suoi, e così pure la principessa.
Passò un mese, ne passarono due, e Florinda si rese conto di un fatto inquietante: era rimasta incinta!
Panico! Che poteva fare? Dove poteva andare? Era rovinata, questo solo era ben chiaro. Così mandò a chiamare immediatamente il giardiniere.
“Aspetto un bambino”, gli disse, “ed è tutta colpa tua. Che faccio? Se lo dico ai miei, quelli m'ammazzano!”
Adesso l'avete capito il piano del Re Granato?
No, non era solo quello di sputtanare la principessa. Lui era molto più astuto e perfido.
“Maestà, qui c'è una sola cosa da fare”, le disse, “dovete scappare.”
“E dove vado?”
“Venite con me. Scappiamo insieme.”
“Ma sei scemo? Io, che sono principessa di sangue, scappare con te che sei un sudicio plebeo?”
“Sarò pure sudicio, però quella notte lì il mio sudiciume tanto schifo non vi fece.”
“Statti zitto, per carità.”
“Come volete. Restate qui, così fra un poco la pancia comincerà a crescere e tutti sapranno che non siete poi tanto santa come dite.”
“E va bene, vengo con te.”
Così fecero i bagagli e una notte fuggirono, e viaggiarono a lungo.
Mesi dopo (ormai Florinda era vicinissima al parto), giunsero in un bellissimo regno, e il giardiniere disse che era la sua terra natale.
“Che bello. Che regno è?”
“Questo è il Regno di Re Granato”, rispose il giardiniere.
Florinda sospirò, e pensò che se non avesse fatto tante storie per uno stupido grano di melograno a quell'ora sarebbe stata la regina di quel regno e non una poveraccia, per di più incinta, costretta a fare la viandante insieme a un giardiniere.
Arrivarono in un bosco, e lì trovarono una casupola.
“È la capanna del guardacaccia del Re”, disse il giardiniere, “ma è disabitata, possiamo starci noi, adesso.”
La povera Florinda era stremata, anche perché aveva viaggiato tanto, e durante il viaggio aveva patito la fame, il freddo, i disagi, proprio lei che era sempre vissuta tra gli agi e non aveva mai avuto bisogno neppure di lavarsi una tazzina. E il giardiniere non aveva fatto proprio nulla per agevolarle le cose. Anzi, pareva che ci provasse gusto a metterla in imbarazzo. A cacciarla in situazioni umilianti, degradanti e brutte.
“Ho fame”, disse Florinda.
“Vado nel bosco a cercare qualcosa”, rispose il giardiniere, “tu intanto vai nel pollaio”, ce n'era uno attaccato alla casa, “prendi un pollo, ammazzalo, spennalo e cucinalo. E se qualcuno ti dice qualcosa, tu rispondi che sei la moglie del guardacaccia.”
La povera Florinda non aveva mai ammazzato e spennato un pollo prima, e farlo adesso fu veramente traumatico. Ma lo fece comunque, perché aveva troppa fame.
Intanto quel disgraziato del giardiniere-Re non era andato a cercare cibo, ma se n'era andato al suo castello. Lì parlò con sua mamma la Regina Madre, cenò abbondantemente, si rivestì da Re, infine montò a cavallo e tornò da Florinda.
“Chi c'è qua?”, disse facendo finta di nulla. Poi si finse sorpreso nel trovare la principessa, però  diede a vedere di non averla riconosciuta, “E voi chi siete?”, domandò invece.
“Sono la moglie del guardacaccia”, rispose Florinda, che si vergognava troppo di trovarsi in quelle condizioni per farsi riconoscere dal Re come la sua ex fidanzata.
“Non è possibile, io non ho più un guardacaccia”, replicò il Re, “secondo me siete solo una ladra. Come mai qua fuori ieri c'erano venti polli e stasera solo diciannove? Ne avete rubato uno voi?”
“No, io no, io non ho rubato niente”, disse la principessa prossima alle lacrime. Si sentiva davvero umiliata, avvilita e spaventata, poverina.
Ma il profumino del pollo arrosto la tradì (se ce ne fosse stato bisogno) e il Re andò su tutte le furie per il (presunto) furto. Le sequestrò il pollo, poi se ne andò via, si cambiò e tornò da Florinda come giardiniere.
“Nel bosco non ho trovato niente. Dov'è il pollo che t'avevo detto di cucinare?”
Florinda si mise a piangere: “Non ce l'ho più. È arrivato il Re e l'ha sequestrato. E non ho il coraggio di ammazzarne un altro.”
E allora il giardiniere finse di andare su tutte le furie, così Florinda si sentì più umiliata che mai e dovette accontentarsi di un tozzo di pane e una crosta di formaggio, mentre il giardiniere andava a spaparanzarsi sul pagliericcio per digerire il lauto pasto che aveva fatto al castello.
Capite adesso dove voleva arrivare? Alla più totale umiliazione della principessa. Anche a costo di far patire la fame a quella che, in fin dei conti, stava aspettando suo figlio.
E le traversie della poveretta non erano ancora finite. Il giorno dopo Florinda si stava lamentando che non avevano mezzi, non avevano soldi e non avevano neppure panni con cui vestire loro figlio quando fosse nato.
In quel momento bussarono alla porta ed era la Regina Madre.
“Dovete sapere che mia nuora sta per avere un bambino”, le disse, “e io devo preparare in fretta il corredino per il neonato, ma sono molto in ritardo. Potete aiutarmi voi?”
Florinda accettò, perché almeno al castello avrebbe avuto da mangiare.
“Parlavi di vestire nostro figlio?”, le disse il giardiniere, “E questa occasione capita a proposito. Mentre sei lì che cuci prendi della stoffa a cacciatela in seno, così avrai di che preparare il corredino anche per il nostro bambino.”
“Ma è un furto!”, protestò la principessa.
“E che alternativa hai? Lasciar morire di freddo nostro figlio? Quando si è disperati, tesoro mio, non si va tanto per il sottile.”
E così, mentre era al castello a cucire, pur vergognandosene, Florinda rubò una bella pezza di stoffa e se la nascose in seno. Vuol dire che la infilò nella scollatura. Chi sa come facevano nelle fiabe a cacciarsi in seno tutte queste cose senza che si vedesse da fuori? Bah!
All'improvviso si spalancò la porta ed entrò il Re Granato (vestito da se stesso, intendo).
“E che ci fa qui questa ladra?”, disse indicando Florinda, “Scommetto che ha rubato qualcosa.”
Le infilò una mano nella scollatura e, tutto trionfante, tirò fuori la pezza di stoffa, e la povera Florinda si sentì morire dalla vergogna. Diventò tutta rossa e cominciò a balbettare e piangere.
Ma la Regina Madre lanciò un'occhiataccia al Re e disse: “Figliolo, guarda che ti sbagli. La nostra Florinda non ha rubato proprio niente, quella pezza gliel'ho regalata io, è sua.”
Il Re sbuffò e se ne andò, e Florinda si profuse in scuse e ringraziamenti verso la Regina Madre.
Qui vediamo che la Regina Madre non è d'accordo col piano del figlio, che lei evidentemente conosce. Però a mio avviso gli dà troppa corda lo stesso. Fossi stata io al suo posto, l'avrei preso a sberle non appena me l'avesse raccontato, altro che assecondarlo.
Il giorno dopo il giardiniere suggerì a Florinda di rubare un po' di quelle perle con cui stavano impunturando le vestine del nascituro, e tanto insistette che lei si sentì in dovere di farlo.
Come il giorno prima, mentre le donne stavano cucendo entrò il Re e cominciò a insultare Florinda dandole della ladra, poi senza tanti complimenti le infilò una mano in seno e tirò fuori un sacchetto pieno di perle. “Lo vedi che è una ladra?”, esclamò trionfante.
La Regina lo guardò storto e gli disse: “Ti sbagli, figlio mio. Io quelle perle gliele ho regalate, sono sue.”
Il Re sbuffò contrariato e se ne andò.
Florinda provava tanta umiliazione e vergogna che il giorno dopo non se la sentiva di ripresentarsi al castello davanti a quella buona Regina, ma il giardiniere insistette e le disse che se voleva procurare qualcosa per mantenere loro figlio doveva cercare di rubare un po' dei diamanti che adornavano le vesti del principino.
Così, mentre cuciva, Florinda si cacciò in seno un sacchetto di pietre preziose. E in quel momento entrò di nuovo il Re, che strillava: “Ma come, mamma, ti fidi a far maneggiare rubini e diamanti a quella ladra? Non lo vedi che cerca di rubare tutto?”
Le cacciò una mano in seno e tirò fuori il sacchetto pieno di diamanti. “Non vorrai farmi credere che le hai regalato pure questo?”
Povera Florinda. Era così vergognosa, umiliata e derelitta che cominciò a piangere, a balbettare, poi impallidì e si accasciò.
“E ora vuole impietosirci fingendo di star male...”, cominciò il Re, ma la Regina Madre lo interruppe.
“Ma sta' zitto, razza di idiota!”, gli disse brusca, “Piantala con questa stupida messa in scena. Non lo vedi che tua moglie sta per partorire? Se proprio non sai far nulla di buono, almeno va' a chiamare la levatrice, che a Florinda ci penso io.”
Il Re, nel vedere che la principessa stava davvero male, sbiancò e corse a chiedere aiuto.
La Regina mise a letto Florinda e, mentre tra sé e sé si pentiva di non aver mollato più scapaccioni al figlio quando ne aveva avuto modo, aiutò il suo nipotino a nascere.
Ed era un bellissimo nipotino davvero.
Florinda capì che tutti i guai passati erano stati la vendetta del Re Granato. Comprese che lui e il giardiniere erano la stessa persona e che quello in cui viveva era un mondo schifoso in cui anche essere principessa non ti mette al riparo da certa brutta gente e da certe brutte ingiustizie.
Capì che lei non avrebbe mai più voluto compierne, di queste ingiustizie, anche se le sarebbe toccato di patirne ancora.
E così il Re Granato e la Principessa Florinda si sposarono in pompa magna, lui da allora fu sempre gentile con lei, lei non alzò mai più la cresta e vissero sempre felici e contenti, in questo modo si chiude la storia.
Perché questa fiaba l'ha raccontata il Re, perciò è un po' di parte.
Infatti secondo lui è una storiella comica...