venerdì 10 maggio 2013

Le sette teste d'agnello, una storia che se la lega al dito

Il titolo è un po' truce. Evoca spettri, orchi e atrocità sanguinolente.
Be', un po' di sangue c'è sicuramente, dal momento che almeno gli agnelli una bella fine non l'hanno fatta.
Io sono una di quelle persone che a Pasqua non mangiano né l'agnello né il capretto, perché detesto l'idea di mangiare un cucciolo (e quindi quando posso evito anche il porcellino e il vitello). So che è ipocrita, ma così son fatta. Ecco, immaginarmi queste testoline d'agnello mi suscita sensazioni macabre e fosche.
Però il legame con la Pasqua finisce qui, perché in effetti questa non è una storia pasquale.
È una storia, invece, che parla di gente permalosa, puntigliosa, che non dimentica un minimo torto neppure quando questo viene ripagato centomila volte.
È la storia, anche, di chi proprio non riesce a non pensare alle passate sventure, e vi rimane attaccato con tale tenacia da non vedere le attuali fortune.


Le sette teste d'agnello
una storia che se la lega al dito


C'era una volta una bella fanciulla che chiameremo, per convenzione, Carolina.
Carolina, come vi ho già detto, era molto bella, dal momento che questa è la dote principale che ogni principessa (per esteso, ogni protagonista di fiaba) deve avere. Solo le cattive sono brutte.
Carolina però era molto povera, e siccome era anche orfana, viveva con la zia, che era povera pure lei. Povera e tirchia. Però visto che era povera, penso che il termine “tirchia” sia un tantino fuorviante. Se era povera, giocoforza doveva essere parsimoniosa e avveduta nello spendere le sue magre risorse.
Un giorno la zia riuscì a procurarsi sette testine d'agnello (da mangiare, sì) e, tutta contenta per quel che considerava una vera fortuna, le portò a casa e le consegnò a Carolina.
“Cucinale come sai fare tu”, le disse, “Io esco per una commissione, quando torno ce le mangiamo assieme.”
Carolina le cucinò, ma poi quel delizioso profumino (bleah!) le solleticò le narici, e lei decise di assaggiarne un pezzettino prima che tornasse la zia. Le piacque, così prese un altro assaggio. E poi un altro. E un altro ancora. E alla fine si accorse che si era sbafata tutto e che alla zia aveva lasciato solamente le ossa.
Fu colta dal panico perché pensò, giustamente, che la zia se la sarebbe presa molto a male. E perciò, non volendola affrontare, scappò.
Corse via, nel bosco, lontano dal paese. E corse, corse, corse, e infine giunse a una radura, si sedette in terra a riprendere fiato e per la spossatezza si addormentò.
Il mattino dopo, all'alba, capitò che in quella radura passasse il Re a cavallo. Lui, naturalmente, era lì a caccia. Nelle fiabe i Re o vanno a caccia o vanno in guerra, non hanno molti altri interessi. Questo qui era a caccia.
Non appena vide Carolina, il Re se ne innamorò e decise di farne la sua sposa.
Così, su due piedi. Anzi, su sei, perché dobbiamo aggiungere anche i quattro del cavallo.
I Re delle fiabe, oltre ad avere una spiccata passione per le armi e i passatempo violenti, sono anche impulsivi e quando vengono colti da un desiderio improvviso devono realizzarlo a tutti i costi, e guai a chi osa contraddirli.
Ora, lui che ne sapeva di questa bella addormentata, oltre al fatto che era bella? Nulla. Per quanto ne sapeva, avrebbe anche potuto essere una grandissima ******* (non scrivo la parola perché non mi va di usare del turpiloquio, immaginatevela voi), ma a lui importava solo che fosse bella. E del resto cercate di capirlo, a lui Carolina interessava solo da un certo punto di vista, come dire... “sensuale”, e se pure fosse venuto fuori che aveva un brutto carattere... be', non era nulla che non si potesse risolvere a frustate.
Insomma, com'è, come non è, non appena la vide decise di sposarsela, e la svegliò apposta per comunicarglielo. E già cara grazia che lo fece.
Carolina, naturalmente, non osò rifiutare. E come avrebbe potuto? Far arrabbiare un Re con un rifiuto non è mai una cosa saggia, specialmente se sei solo un poveraccio senza diritti o santi in paradiso. E poi proprio perché era una poveraccia, questa era la sua unica occasione per uscire dalla miseria e avere una vita migliore.
Come vedete, questa non è decisamente una storia d'amore.
Il Re portò Carolina al castello, la fece rivestire con abiti sontuosi e subito organizzò le nozze.
“Ci sarebbe anche mia zia, però”, disse Carolina al Re, “Lei si è sempre presa cura di me, non posso abbandonarla in quella catapecchia.”
“E che problema c'è?”, rispose il Re, “Invitala, così verrà anche lei a vivere al castello.”
Ma sì, abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno!
Intanto però la zia era tornata a casa e si era accorta che Carolina si era pappata tutte le sette testine d'agnello. Fuori di sé dalla rabbia, perché su quel lauto (lauto per lei) pasto ci aveva messo il pensiero, si era messa a cercare la nipote per tutta la casa, per darle una sonora strigliata.
“Tutte, se le è mangiate!”, continuava a borbottare, “Tutte!”
E così, quando arrivò la delegazione del Re per invitarla alle nozze e portarla a palazzo, così la trovò: che si torceva le mani, si disperava, piangeva a ripeteva costantemente “Tutte, se le è mangiate! Tutte!”
Nonostante questo, però, fece armi e bagagli e seguì la delegazione. A palazzo la ripulirono, la vestirono con abiti eleganti, le offrirono la colazione e poi la scortarono alla cerimonia.
E fu una gran bella cerimonia, naturalmente, anche perché in una fiaba non s'è mai vista una cerimonia nuziale e pure regale che non sia meno che bellissima e sfarzosa.
E naturalmente la sposa era bellissima. Forse un filino troppo magra per i gusti dell'epoca. Perché a quei tempi funzionava al contrario: i ricchi avevano da mangiare e i poveri pativano la fame. Per questo all'epoca per essere belli bisognava avere ciccia, mentre la magrezza era un difetto antiestetico.
Dopo le nozze ci fu un gran banchetto, Carolina e il Re si sedettero a capotavola e la zia venne fatta accomodare accanto alla sposa.
La zia non perse tempo, si sporse verso la nipote e le disse finalmente quel che si era tenuta dentro per tutto quel tempo: “Tutte, te le sei mangiate! Tutte!”, sibilò.
Carolina capì al volo, e rispose sottovoce: “Sì zia, e me ne dispiace moltissimo. Ma guarda, adesso tutti i nostri problemi sono finiti. Guarda quante cose buone ci stanno servendo. La vuoi una coscia di faraona?”
Ma la zia parve non sentirla. Rifiutò la coscia di faraona e continuò a borbottare “Tutte, te le sei mangiate! Tutte!”
“Che dice la zietta?”, domandò il Re, che aveva visto la sua sposina confabulare con la zia e desiderava rendersi amabile.
“Ehm...”, arrossì Carolina, imbarazzata, “Dice che ti ringrazia per averla invitata e che questo banchetto è veramente splendido.”
“Oh, di niente, di niente”, si schermì il Re.
Ma la storia non era ancora finita. “Non devi pensare più a quelle testine d'agnello”, Carolina disse alla zia, “ora non patiremo mai più la fame. Avremo da mangiare sempre, in abbondanza.”
Ma la zia non demordeva: “Tutte, te le sei mangiate! Tutte!”, ripeteva guardando tutte quelle pietanze in tavola con occhi carichi di astio e rancore.
“Che dice la zietta?”, domandò il Re, che voleva fare conversazione.
“Ehm... ehm...”, Carolina era sempre più imbarazzata, “Dice che ti ringrazia per i bellissimi vestiti che le hai regalato, e che è molto felice di venire a vivere a palazzo.”
“Di niente, di niente”, rispose il Re versandosi da bere.
“Visto?”, disse Carolina alla zia, “Verrai a vivere qui. Avrai bei vestiti, tanto denaro, la dispensa sempre piena di tutte le pietanze più prelibate e raffinate. Che te ne importa di quelle testine, che tra l'altro facevano anche abbastanza schifo?”
Ma niente, la zia era ossessionata da quel pensiero. “Tutte, te le sei mangiate! Tutte!”, rispondeva a ogni osservazione di Carolina.
La quale Carolina alla fine si stufò, e all'ennesimo “Che dice la zietta?” del Re, lei rispose, con asprezza: “Dice che vorrebbe una camicia di pece*, perché è una maledetta ingrata permalosa e tirchia.”
E la zia venne condannata a morte.
Questa storia c'insegna (come scrivevo a scuola, quando mi si chiedeva di commentare poesie, storie e brani letterari) che a furia di aggrapparsi ai dolori passati, corriamo il rischio di non vedere le fortune presenti. E anche di far infuriare gravemente chi ci sta attorno.
C'insegna anche che perfino le principesse più dolci quando perdono la pazienza diventano pericolose.
Comunque pare che le ultime parole della zia, quando venne condotta al rogo, siano state “Tutte, te le sei mangiate! Tutte!”

*  Camicia di pece: forma di tortura, mortale, che consisteva nel cospargere una persona di pece e poi darle fuoco (NDR)