mercoledì 13 marzo 2013

Turandot - una storia lirica

Comincio ricordandovi che si dice Turandot. Con la T. Non Turandò, senza, come fosse francese. Perché quella di Turandot non è una fiaba francese ma orientale.
Si tratta di una fiaba nobile, perché è quella che ha fornito la trama a una delle nostre opere liriche più famose: la Turandot di Puccini.
E in effetti mi riesce difficile, se non impossibile, parlare della bella e sdegnosa principessa cinese senza pensare all'opera di Giacomo Puccini.
Turandot è l'ultima opera del Maestro di Torre del Lago, che morì nel 1924 lasciandola incompiuta. Il compositore napoletano Franco Alfano la portò a termine, e la prima rappresentazione si ebbe alla Scala di Milano il 25 aprile 1926, il direttore d'orchestra era Arturo Toscanini. Quella sera, nel mezzo del terzo atto, Toscanini fermò l'orchestra, posò la bacchetta, si volse verso il pubblico e disse: “Qui finisce l'opera, perché a questo punto il Maestro è morto.”
In realtà pare che non abbia pronunciato esattamente queste parole, ma la leggenda così vuole.
Soprattutto la Turandot di Puccini è nota per l'aria “Nessun dorma”, che è stata cavallo di battaglia di Luciano Pavarotti e resta una delle arie operistiche più famose di tutti i tempi.
L'opera di Puccini è ispirata alla commedia di Carlo Gozzi, che s'inseriva nella tradizione della Commedia dell'Arte italiana e conteneva anche personaggi quali Pantalone e Brighella, che non fanno propriamente parte della tradizione orientale.
Per il teatro poi ne esistono una versione di Schiller e una di Brecht. Quindi vedete che stiamo puntando in alto.
Nel 1992 la cantante Irene Fargo portò al Festival di Sanremo una canzone intitolata “Come una Turandot”, dalla quale si evinceva che chi aveva scritto il brano non conoscesse l'opera, perché pensava che Nessun dorma lo cantasse Turandot e non, come in realtà è, il principe Calaf.
Tutte le versioni di Turandot sono ispirate a un racconto contenuto ne “I mille e un giorno”, raccolta settecentesca di fiabe persiane a cura del francese François Pétis de la Croix.
Oh, fatto questo preambolo storico, che cosa ne viene a noi? Come molte fiabe, quella di Turandot è una storia d'amore. È la storia di una donna bella e crudele, difficile da conquistare. Anzi, impossibile da conquistare se non per il prescelto, che invece ci riesce piuttosto facilmente.
È la storia di un colpo di fulmine, di indovinelli da risolvere, di un nome da svelare.
Ma adesso andiamo a incominciare il racconto, altrimenti finisce che vi dico tutto qui, e poi voi cosa leggete?



Turandot
una storia lirica


Il giovane principe Khalaf, figlio di Timurtasch, re del khanato di Astrakan, e della principessa Elmaze, era il principe più bello, forte, intelligente e amabile che si fosse mai visto da secoli. Non solo era un abile guerriero, ma anche un uomo molto colto, sapiente, ferrato in ogni argomento all'epoca conosciuto, dalla matematica alla poesia, dall'astronomia alla teologia, dalla musica alla fisica. E poi era coraggioso, leale, gentile, premuroso... come dite? Qual è il suo numero di telefono? Spiacente, ma non sono autorizzata a passarvi informazioni di questo tipo.
Un brutto giorno il sultano del Carisma, che non era un'acqua di colonia, pensò bene di chiedere un tributo annuale al regno di Timurtasch. Khalaf, che oltre a essere bello era anche orgoglioso, non volle abbassare la cresta, perciò si mise a capo dell'esercito, radunò i suoi alleati, e partì in guerra contro il sultanato di Carisma.
Nella fiaba persiana questa parte qua è lunghissima. Ci sono battaglie, guerre, fughe, incontri, avventure e sventure, e perfino altre due storie indipendenti che altra gente racconta al nostro bel principe. Noi tagliamo corto, perché tanto l'unica parte che c'interessa è quella della storia tra Khalaf e Turandot. Vi spiego in breve l'essenziale, però, perché ha una sua importanza.
Nonostante il valore e il coraggio, Khalaf perse la guerra e il suo esercito venne decimato. Lui si salvò e, assieme ai genitori, fuggì da Astrakan e vagò per il vasto mondo mediorientale confidando nella Provvidenza e aspettando tempi migliori. Il viaggio fu lungo ed estenuante, Timurtasch ed Elmaze erano anziani e facevano fatica ad affrontare disagi, stenti, miserie, lunghi cammini tra deserti ed aspre rupi. Spesso erano tentati di lasciarsi andare, ma sempre Khalaf, con la forza della sua fede e della sua devozione, riusciva a salvarli. Ogni tanto incontravano gente che li aiutava, e allora le speranze sembravano rinascere. Ogni tanto finivano ridotti allo stremo, e allora Timurtasch cominciava a pensare che solo la morte fosse desiderabile. A un certo punto i tre si unirono a una carovana di cammellieri e raggiunsero i territori della tribù di Berlas, dove Khalaf fu costretto a chiedere l'elemosina per procurarsi il pane per i suoi genitori. Era il culmine dell'umiliazione per lui, che era sempre stato un principe fiero e consapevole del proprio valore. Ma lo fece per amore, e questo nobilitò il suo gesto anziché degradarlo.
Ecco chi è il principe Khalaf. Non il tenore, generalmente panzone e flaccido, che immaginate quando pensate alla Turandot. Ah, prima che facciate commenti... non so se ci avete fatto caso, ma questo NON è il riassunto dell'opera di Puccini. Giusto per mettere in chiaro le cose, eh. Che poi magari qualcuno pensa che lo sia e, per esempio, sbaglia la tesi di laurea perché cade in questo errore.
Riprendiamo la storia.
Un giorno, mentre era alla vana ricerca di un lavoro anche umile per mantenere i genitori, Khalaf trovò un bellissimo falco da caccia, e comprese che era il falco preferito del khan di Berlas, che era stato smarrito proprio il giorno prima. Fu il suo primo colpo di fortuna. Khalaf riportò il falco al khan, che per riconoscenza prese a benvolerlo e gli promise qualunque cosa come ricompensa.
Khalaf fece due richieste: la prima, che i suoi genitori potessero avere un alloggio decoroso tutto per loro e venissero mantenuti tra gli agi, perché erano anziani e meritavano rispetto. La seconda, domandò per sé cavallo ed equipaggiamento per mettersi in viaggio e cercare fortuna altrove. Gli era venuto in mente di poterla trovare in Cina, e perciò desiderava recarsi lì.
Il khan accettò, e accolse volentieri Timurtasch ed Elmaze, anche se non sapeva chi fossero, perché Khalaf aveva raccontato che erano due mercanti che i predoni avevano spogliato di tutti i loro beni. Durante la fuga, infatti, il principe aveva imparato a tenere celata la propria identità e quella dei suoi genitori, perché sapeva che il sultano di Carisma li stava cercando per ucciderli, e che pochissimi avrebbero avuto l'ardire di tener testa alle sue imposizioni.
Vi pare una cosa lunga fin qui? Eppure rispetto all'originale sono stata brevissima...
L'indomani, abbigliato come un principe e in groppa a uno splendido destriero, Khalaf si mise in viaggio per la Cina. E qui perfino la fiaba originale afferma che non gli capitò nulla di emozionante fin quando non giunse alle porte di Pechino.
Però prima di entrare in città voleva informarsi sugli usi e costumi locali. Iniziativa lodevole, no?
Incontrò una vedova benestante, le domandò ospitalità e si fece raccontare tutto da lei.
“Il re della Cina”, raccontò la donna, “è molto saggio, generoso e amato.”
“Dev'essere un re felice, allora.”
“No, perché purtroppo è afflitto da un grande dolore. Devi sapere, figliolo, che il Re non ha avuto la fortuna di avere un erede maschio. Ha un'unica figlia femmina che lui ama come le sue pupille, ma che è anche per lui fonte di grande dolore. La principessa Turandot ha diciannove anni ed è la donna più bella che si sia mai vista o immaginata da secoli. È così bella che neppure i pittori migliori riescono a renderne la bellezza, nonostante la loro arte. Eppure quelle misere rappresentazioni sono già così belle in sé, che nessuno può ammirare un ritratto di Turandot senza innamorarsene.”
Ora, io mi sono sempre chiesta se questo fascino fatale agisse solo sui principi e sugli uomini di alto lignaggio. Perché se fosse stato un potere valido per tutti, come mai di tanti pittori che la ritrassero (osservandola quindi dal vero) neppure uno s'innamorò di lei? Possibile che fossero tutti omosessuali?
Voi che ne dite?
Khalaf non volle credere alle parole della vedova. “Probabilmente”, disse, “i pittori nel ritrarla l'abbelliscono, ecco perché sembra così irresistibile a tutti.”
“E invece no”, rispose decisa la donna, “Perché io la conosco di persona, e mia figlia lavora con lei, e posso assicurarti che dal vivo è mille volte più bella che in ritratto. E già in ritratto è così bella da non resisterle. Però ha un grave difetto: è anche molto intelligente e colta.”
La cultura e l'intelligenza in una donna erano dunque considerati difetti. Vediamo perché.
“Turandot ha sempre studiato moltissimo, è molto saggia e sapiente. Non c'è materia che le sia ignota. Matematica, astronomia, poesia, filosofia, musica, perfino teologia. La sua cultura va oltre quanto si addica a una donna. Ha una cultura da uomo”, e ci credo quindi che tutti la temevano: bella, intelligente e colta, in grado di tenere testa agli uomini. Un mix micidiale!
“Due anni fa”, continuò la vedova, “il principe del Tibet la chiese in moglie, e il Re voleva accettare. Ma lei rifiutò, e quando suo padre puntò i piedi Turandot si ammalò. Era così grave che i medici pensavano potesse morirne. 'E se la forzate a sposare il principe', dissero al Re, 'morirà sicuramente'. Il Re ama moltissimo la principessa e perciò si arrese alle sue richieste. 'Padre', gli disse Turandot, gemendo di dolore, 'Io non mi voglio sposare perché detesto gli uomini e non voglio perdere la mia libertà. Potrei morirne.' 'Ma non puoi impedire che altri principi ti chiedano in moglie', rispose il Re. 'Allora facciamo così. Poniamo loro degli ostacoli insormontabili. Chi vuole sposarmi dovrà affrontare una prova davanti al Consiglio dei Saggi. Io porrò delle domande. Chi risponderà correttamente vincerà la mia mano. Ma chi sbaglierà verrà condannato a morte il giorno seguente.' 'E se qualcuno rispondesse bene?' 'Farò in modo che questo non sia possibile.' 'Ma così nessuno più chiederà la tua mano!' 'È appunto quel che voglio!', rispose Turandot. Il Re credeva veramente che nessuno avrebbe mai più chiesto la mano di Turandot, per questo motivo era abbastanza tranquillo quando giurò alla figlia di mantenere quell'accordo. Invece si sbagliava, perché la bellezza di Turandot è tale che da allora moltissimi principi e sultani hanno sfidato la morte pur di tentare almeno di conquistare la bella principessa.”
La vedova sostenne che i principi affrontavano la sfida pur conoscendone le possibili, e letali, conseguenze perché Turandot era così bella che per lei avrebbero fatto qualunque cosa. Secondo me invece lo facevano perché erano convinti che i quesiti posti da una donna dovessero essere per forza semplicissimi. Insomma, com'era possibile che una donna fosse più intelligente e colta di loro?
Erano passati due anni, e mai nessuno dei pretendenti era riuscito a risolvere i quesiti di Turandot. Tutti erano stati condannati a morte, e il Re era disperato. Ogni volta che arrivava un nuovo candidato lui cercava di dissuaderlo, ma non c'era mai niente da fare. Aveva quasi preso a detestare Turandot, che sembrava invece godere di quei tributi di sangue. Per lei nessun uomo era degno neppure di pensare di poterla avvicinare!
Figuriamoci sposarla!
“Ma forse”, azzardò Khalaf, “tutti i pretendenti erano stupidi o ignoranti”, anche lui pensava che una donna non potesse essere tanto colta e intelligente, forse.
“Al contrario, erano tutti principi nobili e ben educati. L'ultima vittima risale a ieri. E proprio stasera ci sarà l'esecuzione pubblica, in piazza.”
Questa storia incuriosì oltremodo Khalaf, che decise pertanto di assistere all'esecuzione e quella sera si recò in piazza.
Che folla c'era! Le strade straripavano di pechinesi curiosi...
M'è venuta male, rifacciamo.
Che folla c'era! Tutta Pechino era scesa in strada, perché quel giovane principe che stava per essere giustiziato suscitava la compassione di chiunque. Doveva avere a malapena diciott'anni. Era bello, fiero, dal volto fresco. Che peccato che dovesse morire così!
Indossava una veste bianca e attorno al capo aveva una corona di fiori e foglie di cipresso intrecciati, e anche un nastro celeste che stava a significare che non era un criminale né un nemico, perché i criminali e i nemici erano obbligati a portare un nastro rosso. Il ragazzo venne condotto ai piedi di un altare, e un alto dignitario prese a recitare la formula di rito:
“Principe, non è forse vero che eri a conoscenza dei termini dell'editto regale prima di chiedere la mano della Principessa?”
“Ne ero a conoscenza.”
“E non è forse vero che eri stato informato di tutte le possibili conseguenze?”
“Ne ero stato informato dettagliatamente e sapevo a cosa andavo incontro.”
“E non è forse vero che il Re ha cercato di impedirti di sottoporti alla prova, ma nonostante questo tu hai voluto proseguire lo stesso?”
“È vero.”
“E dunque, Principe, se adesso perderai la vita la responsabilità è interamente tua, non del Re né della principessa Turandot.”
“Mi assumo interamente la responsabilità della mia fine. Sono stato io a sceglierla e il mio sangue non ricadrà sulle loro Altezze Reali.”
Detto questo, il boia estrasse una sciabola e mozzò di netto la testa al bel principe.
Quando il corpo venne portato via tra grandi onori e la folla se ne fu andata, Khalaf vide un anziano che piangeva disperato, ed evidentemente era uno che aveva voluto bene al principe giustiziato.
“E come avrei potuto non volergliene?”, disse il vecchio quando Khalaf lo interrogò, “Ero il suo tutore. Povero principe di Samarcanda! Con che cuore racconterò a suo padre la fine del suo unico, adorato figliolo?”
“Dunque quello era il principe di Samarcanda. Ma come fece a innamorarsi della principessa Turandot? Samarcanda è lontana da Pechino.”
“Suo padre voleva che prendesse moglie, e perciò fece venire un pittore che aveva con sé diversi ritratti delle principesse disponibili. Erano tutte molto belle, ma non appena il principe vide il ritratto di Turandot disse che non avrebbe amato altre che lei, anche a costo di morirne. E così è stato. Ecco, figliolo, ecco quel ritratto maledetto. Io non lo voglio più vedere.”
Il vecchio porse a Khalaf una pergamena arrotolata, poi se ne andò piangendo. Era buio, ormai, troppo buio per vedere bene il ritratto, e troppo buio anche per ritrovare la strada di casa. Così Khalaf si ritirò in un angolo tranquillo, a meditare sul da farsi. Cosa doveva fare? Da un lato era estremamente curioso di vedere quel ritratto fatale che aveva stregato e condotto a una fine prematura tanti ragazzi e tanti uomini. Da un altro... aveva paura. Paura di cascarci anche lui. E se anche lui si fosse innamorato di Turandot? E se anche lui avesse perso la testa e si fosse dato in pasto alla rovina? Trascorse tutta la notte a meditare su questo angoscioso dilemma poi, come spesso capita, quando il sole sorse e rischiarò il mondo con la sua luce, molte paure si dileguarono.
“Ma che sciocchezze!”, si disse, “Come può un ritratto essere tanto pericoloso? Questa storia della maledizione è sicuramente una superstizione, un'esagerazione. I principi che si sono fatti abbagliare erano senz'altro degli stupidotti.”
E srotolò la pergamena.
E vide il ritratto.
E... SBONK!
Ma chi era quella divina creatura ritratta? Poteva davvero essere Turandot? Così bella? Così soave? Così sublime? La somma di tutte le perfezioni umane?
Insomma, non appena vide quel ritratto Khalaf seppe di essere perdutamente innamorato della ragazza. E per lei avrebbe fatto qualunque cosa. Anche gettarsi tra le fiamme. Anche farsi tagliare la testa a sangue freddo, come aveva fatto il principe di Samarcanda. Anzi, era perfino una gioia farsi torturare per lei. Nessun sacrificio era troppo, se affrontato per lei.
Eccolo là, l'uomo tutto d'un pezzo. E questo per un ritratto!
Ditemi voi se questa non è un'esagerazione letteraria. E anche fastidiosa, secondo me. Ci credo che Turandot fosse così inacidita con gli uomini. Ma come, dopo tutta la fatica che lei aveva fatto per istruirsi, gli uomini ancora guardavano solo l'aspetto esteriore? Tra l'altro, in quel ritratto era pure vestita. Anzi, si vedeva solo la faccia.
A ogni modo, Khalaf decise di chiedere la mano di Turandot. E del resto lui non era più colto e sapiente di tanti altri principi? Ma sì, certamente lui aveva più possibilità di farcela.
Con questo spirito ottimista, Khalaf tornò a casa dalla vedova e le raccontò le sue intenzioni.
La vedova non la prese benissimo, anzi. Desiderò di non avergli mai parlato di Turandot. Però ormai il danno era fatto, e anche lei sapeva che quando un principe si innamorava di Turandot non c'era nulla da fare per fargli cambiare idea.
Khalaf si recò al Palazzo Reale (all'epoca la Città Proibita ancora non esisteva) ed espose la sua richiesta.
Il Primo Ministro cercò di fargli cambiare idea. Il Re stesso cercò di fargli cambiare idea. Anzi, lo supplicò quasi in ginocchio di cambiare idea, perché Khalaf gli riusciva straordinariamente più simpatico di tutti gli altri pretendenti. Lo rimbalzarono per tre giorni di seguito, sperando che cambiasse idea. Ma fu tutto inutile, Khalaf era sempre più convinto.
“È un tipo in gamba, sapete?”, disse il Primo Saggio al Re, “L'ho interrogato un po', ed è un ragazzo veramente colto e sapiente, molto più preparato di tutti gli altri. Se c'è qualcuno che può farcela a superare il test di Turandot, quello è sicuramente lui.”
Un barlume di speranza si accese nel cuore del Re, anche se forse sperare era troppo perfino nella migliore delle ipotesi.
Venne il giorno della Grande Prova, e Khalaf venne condotto davanti al Gran Consiglio dei Saggi. Sull'altare di fronte a lui salirono il Re, pieno di angoscia e apprensione, e Turandot. La principessa portava abiti di seta bianca e dorata, e aveva il viso coperto da un velo, così non era possibile scorgerla in volto.
“Principe”, disse il Primo Saggio, “stai affrontando questa prova, che può avere esiti fatali per te, in tutta libertà. Nessuno ti ha costretto. Se avrà esiti letali sarà per tua libera scelta, e non per colpa del Re e della principessa Turandot. Ne sei consapevole?”
“Ne sono consapevole, e se dovessi morirne sarà solo responsabilità mia”, rispose Khalaf a testa alta.
“Ti verranno poste delle domande. Se non darai la risposta giusta entro sette minuti verrai condannato  a morte. Ne sei consapevole?”
“Ne sono consapevole.”
“Sei ancora in tempo per tirarti indietro. Puoi ancora salvarti. Vuoi andartene adesso?”
“No. Per nessun motivo al mondo.”
Ci sono quiz più ansiogeni di questo, lo so, però almeno lì non c'è la vita in ballo.
“Si dia il via alla prova”, disse il Primo Saggio.
La Principessa si fece avanti, srotolò una pergamena e disse, lentamente: “Ecco il primo quesito: chi è colui che appartiene alla Terra tutta, che di tutto il Mondo è amico, e che non ha eguali?”
“Il sole”, rispose rapido Khalaf, “Sì, il sole. Illumina tutta la Terra, di tutto il Mondo è amico e sicuramente non ha eguali.”
“È giusto”, mormorarono stupiti i saggi.
La Principessa s'irrigidì e le sue pallide dita strinsero la pergamena un po' più forte. “Benissimo, straniero”, disse, “Ecco il secondo quesito: qual è quella madre che dopo aver messo al mondo i suoi figli, li divora tutti quando sono cresciuti?”
“È il mare”, si affrettò a rispondere Khalaf, “Sì, è il mare, che genera i fiumi, ma poi li rimangia... perché poi i fiumi si riversano nel mare. È giusto, no?”
Era giusto.
E voi starete pensando che queste famose prove mortali siano solo indovinelli cretini. Sulla Settimana Enigmistica se ne trovano di più complessi. E avete ragione, ma dovete calcolare i tempi. E anche il fatto che chi riportò la storia forse non aveva l'intelligenza e la cultura di Turandot e non sapeva elaborare prove più dotte di così. Ve la ricordate quella di Edipo e della Sfinge di Tebe, no? Nessuno riusciva a risolverla a parte Edipo, poi venne fuori che era una cosa banale come “Indovina chi è quell'animale che la mattina cammina con quattro zampe, il pomeriggio con due e la sera con tre”. E se avesse chiesto: “Son verde verdino, son tondo e piccino, vivo in un baccello e mi chiamo...” l'avreste indovinato?
Insomma, come fu e come non fu, Khalaf aveva risolto i primi due enigmi e ora Turandot era decisamente irritata, perché temeva che potesse risolvere anche il terzo, nonché ultimo. Perciò fece una cosa scorretta. State a sentire.
“Qual è”, disse, “quell'albero le cui foglie sono nere da un lato e bianche dall'altro?”, e non appena ebbe pronunciata la domanda sollevò il velo che le nascondeva il volto. E la sua bellezza era così sfolgorante che Khalaf ne rimase abbagliato e si dimenticò di rispondere.
Ed era proprio questo il fine di Turandot: ammaliare Khalaf affinché il poverino non facesse in tempo a rispondere al quesito.
“Ebbene?”, lo incoraggiò il Primo Saggio, “Coraggio, ragazzo. Qual è la risposta?”
Khalaf si scosse e si morse le labbra per tornare in sé. “Scusa, mia Principessa”, disse, “ma la tua bellezza è così abbagliante che ho dimenticato la domanda. Potresti ripetermela, cortesemente?”
“Qual è”, ripeté Turandot, che ormai si sentiva la vittoria in pugno, “quell'albero le cui foglie sono nere da un lato e bianche dall'altro?”
“Ma è l'anno, mia Principessa”, rispose prontamente Khalaf, “Le foglie sono le giornate. Notte da un lato e giorno dall'altro.”
“La risposta è esatta”, disse il Primo Saggio.
E Turandot, pallida dalla rabbia, dovette convenire che era così. “Presentati domani sera”, gli disse, “per la seconda prova.”
Ma qui il Re subodorò qualcosa di strano. “Quale seconda prova? Non ci sono seconde prove. C'è una prova sola. Se hai altre domande, falle adesso.”
“Non ne ho”, ammise Turandot a denti stretti, “Avevo preparato solo queste tre domande. Ero certa che non sarebbe stato in grado di rispondere. Se torna domani...”
“Che intenzioni hai?”, la interruppe il Re, “Fargli domande all'infinito finché non sbaglia? No, cara mia, ti ho dato fin troppa corda. I patti erano che se uno ti avesse dato le risposte giuste, tu l'avresti sposato. Questo bravo giovane ha dato le risposte esatte, tu ora devi mantenere l'impegno. Altrimenti vuol dire che hai ingannato tutti, anche quelli che sono morti per te. E non fingere di star male, signorinella. Non attacca più. Io ho mantenuto il giuramento fin dove era valido, ma ormai non ti devo più niente, perché questo nobile ragazzo ha risposto correttamente a tutte le tue domande. Il mio giuramento è sciolto.”
Povera Turandot! Il suo trucco le si era rivoltato contro. Ma insomma, se una non voleva sposarsi cosa doveva inventarsi per mantenere la propria indipendenza? Perché nelle fiabe, e non solo lì, si dà per scontato che le donne vogliano sposarsi per forza, ma non è detto che sia sempre così. Quando un uomo non vuole sposarsi, una scappatoia la trova sempre. Ma quando una donna non vuole sposarsi è molto, molto più complicato. Perché per molti sarebbe una scelta molto, molto eccentrica.
Turandot impallidì, e Khalaf pensò di giocare la carta dell'altruismo. Badate, lui finse soltanto di venirle incontro, ma in realtà le propose un gioco nel quale era certo di poter vincere.
“Se la principessa non mi vuole sposare”, disse, “io non voglio costringerla. Facciamo perciò un'altra prova: se Turandot risponderà alla mia domanda, io non reclamerò i miei diritti su di lei e me ne andrò senza pretendere di sposarla.”
Tutti pensarono che fosse un gesto assai nobile, per uno che aveva appena rischiato la vita pur di vincere la mano della Principessa.
“Ebbene”, disse Khalaf, “Principessa, tu devi dirmi il nome di quel principe che ha patito tante disgrazie, che è arrivato addirittura a mendicare il pane, ma che adesso è colmo di gloria e di felicità.”
Turandot impallidì e meditò, poi disse, tesa come non mai: “È una domanda difficile. Concedimi una notte di tempo. Domattina, all'alba, ti risponderò.”
Il Re stava per protestare, ma Khalaf lo interruppe: “D'accordo. Domattina, all'alba, tu mi darai la risposta o mi sposerai.”
Il Re era preoccupato, e prese in disparte Khalaf: “Che hai fatto?”, gli disse, “Mia figlia è molto colta. Sicuramente sa il nome di questo principe.”
“Impossibile”, rise Khalaf, “Perché quel principe sono io, e qui nessuno sa come mi chiamo. Non mi sono mai rivelato ad anima viva, perciò la bella Turandot non indovinerà mai e sarà costretta a sposarmi.”
Il Re fu tanto felice di saperlo, che organizzò una festa in onore del principe straniero.
E intanto Turandot, nelle sue stanze, era letteralmente fuori di sé.
Piangeva, si strappava i capelli, si graffiava la faccia e gridava.
“Maledetto, maledetto. Ma come ha fatto a risolvere i miei enigmi? Nessuno c'era mai riuscito prima. Brutto schifoso infame!”
E ancora giù a piangere e lamentarsi, col trucco che le si scioglieva sul volto e le ancelle che cercavano inutilmente di calmarla.
“Ma Principessa, non fare così”, le dicevano, “in fondo il principe straniero è così un bell'uomo. E poi è intelligente. Non potresti desiderare sposo migliore di lui.”
“In effetti”, ammise Turandot, “quel ragazzo mi piace molto. Quando l'ho visto il cuore mi ha fatto un balzo nel petto e ho quasi sperato che mi desse le risposte giuste. Ma poi quando me le ha date... non so, mi ha fatto troppa rabbia. Non voglio sposarmi perché lo decide qualcun altro. Voglio sposarmi perché lo decido io.”
Capite adesso l'inghippo? Non è che una (o uno) debba essere ostile alle nozze per partito preso. Quel che scoccia, è dovervi sottostare senza avere possibilità di scelta. Perché l'ha deciso qualcun altro. Oppure perché l'hanno deciso le convenzioni. O, peggio ancora, la moda. Non siete d'accordo anche voi? Oppure siete già tutte lì a prenderle le misure per l'abito bianco, convinte che l'unica felicità stia in un mazzo di fiori d'arancio?
“Ma che problema c'è?”, dissero le ancelle, “Tu domani rispondi all'enigma e sei libera di nuovo, no?”
“Rispondere all'enigma? E chi cavolo sa rispondere a quell'enigma?”
“Ma tu dicevi... che per domani all'alba...”
“E non lo capite quando uno bluffa? Io mi sono solo presa del tempo... per morire di disperazione per conto mio, prima di arrendermi a un uomo.”
“Dunque non sai chi sia quel principe?”
“Ma certo che lo so. È lui quel principe. Però non so come accidenti si chiami. E non so come scoprirlo.”
“Quello”, disse un'ancella, “forse lo so io.”
E qui sfumiamo e torniamo a Khalaf che, ebbro di gloria e libagioni, se ne stava andando nelle sue stanze a palazzo. Poi, felice come non mai, alzò lo sguardo al cielo stellato e tra sé e sé intonò un canto. E lo sapete qual era quel canto? Eccolo:
Nessun dorma! Nessun dorma!
Tu pure, o Principessa,
nella tua fredda stanza
guardi le stelle
che tremano d'amore e di speranza...
Ma il mio mistero è chiuso in me,
il nome mio nessun saprà!
No, no, sulla tua bocca lo dirò,
quando la luce splenderà!
Ed il mio bacio scioglierà il silenzio
che ti fa mia.
Dilegua, o notte! Tramontate, stelle!
Tramontate, stelle! All'alba vincerò!
Vincerò!
Vinceròòòòòòòòòòòòòòò!!!!!!!!!!!!!!!!!
Scusate, mi sono lasciata trasportare dalla commozione melodrammatica.
Come dicevo, Khalaf era convinto che nessuno sapesse il suo nome, e in effetti nessuno lo sapeva. Ma quel che non si sa lo si può scoprire, come dicevano i vecchi antichi.
Quando entrò nella sua stanza, Khalaf vi trovò una bella donna. Che non era lì per sedurlo, come starete pensando.
“Perdona il mio ardire, Principe”, disse la donna, “io sono una schiava, lo so. E non è usanza che una donna si avvicini tanto alle stanze degli uomini, ma questa è un'occasione speciale”, e gli raccontò che lei era una principessa straniera, che il suo regno era in lotta con la Cina, che questo regno aveva perso e che lei era stata fatta prigioniera, “e tutto questo per garantirti che essendo di nobile ascendenza non sono qui per cercare di imbrogliarti. Io sono schiava qui da tanto tempo e sono diventata ancella di Turandot. Praticamente la sua migliore amica. Ma tu mi sei simpatico. Sei buono e onesto. Per questo debbo avvisarti di un fatto grave: Turandot è così infuriata con te che pur di non sposarti ha deciso di farti assassinare. Domani, mentre ti recherai al Consiglio, i suoi eunuchi ti uccideranno.”
Oh, che brutta notizia! Il nostro bel principe sapeva che Turandot non era esattamente esultante all'idea di sposarlo, ma al punto da farlo ammazzare... no, questo mai. Questo era il colpo al cuore peggiore che potesse ricevere.
“Ma che male ho fatto? Io, il principe Khalaf, figlio di Timurtasch... perché gli Dei mi detestano a tal punto?”, e pianse, si strappò i capelli e si disperò.
“Io ti consiglio di scappare”, suggerì la donna.
E per un buon quarto d'ora anche Khalaf pensò che la fuga fosse l'unica soluzione. Ma poi ci ripensò.
“No”, disse, “sia quel che sia, affronterò il mio destino. La vita senza Turandot è una vita vuota. Meglio morire per ordine suo che vivere senza di lei.”
Visto che tempra? Il principe della Bella Addormentata era semolino in confronto a lui.
La notte passò per Khalaf tra incubi disperati e sogni di speranza. Poi l'indomani, all'alba, gli eunuchi di Turandot andarono a prenderlo per portarlo nella sala del Consiglio.
A ogni passo lui si aspettava di venire ammazzato, ma non successe nulla di tutto ciò.
Voi l'avete capito, vero, che non era questo l'inghippo che Khalaf doveva temere?
Come il giorno prima, Turandot si presentò sul pulpito accanto al padre.
“Dunque, figlia mia, sei pronta ad arrenderti?”
“Neanche per sogno”, disse Turandot, imperturbabile, “io conosco la risposta. Il nome dal principe è Khalaf, figlio di Timurtasch.”
Khalaf ne fu così sorpreso che impallidì e svenne. Ma certo! Non c'era nessun complotto per assassinarlo. La schiava era semplicemente riuscita a fargli rivelare il suo nome. Un trucco subdolo, se vogliamo, ma efficace.
“Però”, disse Khalaf quando si riprese, “la risposta non è corretta. Ti avevo chiesto il nome di un principe colmo di gloria e di felicità. Io invece sono colmo di tristezza e di disperazione.”
“Non importa”, rispose Turandot, “perché quando mi avevi fatto la domanda, ieri, eri colmo di gloria e di felicità ed è questo quel che conta.”
I Saggi dovettero ammettere che Turandot aveva ragione, e Khalaf si preparò ad abbandonare la Cina sconfitto e col cuore a pezzi.
“Ho indovinato, però”, aggiunse in quella Turandot, “questo non vuol dire che non voglia sposarti lo stesso.”
Cosa? Ma allora... era un bluff anche questo?
Turandot sorrise a Khalaf, il sorriso più dolce che si possa immaginare. “Ti sposerò”, gli disse, “ma solo perché l'ho deciso io, non una stupida legge.”
E qui a momenti svenne il Re, perché il suo sogno più grande era proprio di vedere Turandot sposata e con tanti figlioletti che lo chiamavano nonno.
Le nozze si celebrarono subito, prima che qualcuno cambiasse idea, e l'amore tra Khalaf e Turandot fu ardente e appassionato. E del resto i due si somigliavano tanto.
Poi ci furono le altre formalità: Khalaf recuperò i genitori e diede loro la bella notizia e quindi, grazie all'aiuto dell'esercito cinese, affrontò il sultano del Carisma e lo vinse, così recuperò il proprio regno e lo riconsegnò al re suo padre e cose così.
E quindi finalmente Khalaf e la sua adorata Turandot furono liberi di trascorrere una vita felicissima insieme... in biblioteca.
Bello, no?

venerdì 8 marzo 2013

Otto marzo, facciamoci coraggio...

Otto marzo, stavolta cerchiamo di essere un pochino più seri.
Solo un pochino.
Oggi si celebrano le donne.
Perché?
Che hanno in più? Che hanno di straordinario? Che hanno di speciale perché si debba celebrarle?
Tutto e niente, come qualunque essere umano.
Ma a differenza degli altri esseri umani di sesso maschile, le donne sono sempre state considerate, quando più e quando meno, da chi più e da chi meno, esseri umani di serie B.
Emanciparsi significa liberarsi da un vincolo, da una soggezione. È un termine che risale all'antica Roma, quando l'emancipazione era un atto pubblico che liberava un figlio dalla patria potestà oppure rendeva libero uno schiavo. Emanciparsi significa diventare liberi, indipendenti, responsabili di sé stessi.
Ci siamo già emancipate? In parte sì e in parte no, ed è questo che vogliamo celebrare oggi. Le conquiste fatte e quelle ancora da fare.
Oggi ne vedremo di ogni colore, ma soprattutto di giallo e di rosa.
Giallo per via della mimosa, che in Italia è il fiore simbolo dell'otto marzo. Non ci sono motivi particolari, è semplicemente il fiore più diffuso in questo periodo.
Saremo inondate di mimose, reali e virtuali, sappiatelo.
E saremo anche inondate di rosa, perché il rosa è considerato il colore femminile per eccellenza e non c'è verso di scamparne.
Perché rosa? Perché il rosa è una diluizione del rosso, e il rosso è il colore del sangue, e ovviamente il sangue richiama il mestruo e il parto. Ecco spiegato. O meglio, questo è quel che credeva la mia prof. di letteratura postmoderna quando ci spiegò come mai Cappuccetto Rosso aveva la mantella di quel colore.
Siete anche liberi di non crederci, è un'opinione come un'altra...
Qui ne trovate altre.
Oggi, dicevo, ne vedremo di ogni colore.
Vedremo donne festeggiarsi con maratone di shopping o di film romantici. Donne scendere in piazza, o in rete, o dovunque ci si possa radunare, per dire che no, queste benedette pari opportunità non le abbiamo ancora per davvero. Donne andare a celebrarsi con altre donne brindando con champagne e long drinks, oppure ammirando scolpiti maschioni in slip (o anche senza), e ancora donne sgobbare come matte esattamente come tutti gli altri giorni, donne infastidite che non trovano nulla da festeggiare ma tutto da recriminare in un giorno come questo, donne che per un giorno si sentiranno regine solo per tornare a fare le schiave per gli altri trecentosessantaquattro, donne che ritengono normale dover essere sempre loro a sacrificarsi per gli altri e donne che pensano sia ipocrita festeggiarci solo un giorno all'anno e ignorarci il resto. E poi vedremo uomini regalare mimose, uomini dire “voi siete speciali, più forti e migliori di noi” senza necessariamente pensarlo davvero, uomini che lo diranno e lo penseranno anche, uomini che lo diranno e lo penseranno ma poi non faranno nulla per dimostrarlo, uomini che lo diranno e lo penseranno e penseranno anche che sia normale e naturale che siano sempre le donne a sacrificarsi per loro, uomini irritati perché “la festa dell'uomo non c'è”, uomini infastiditi e urtati perché ritengono che maggior libertà per le donne voglia dire minor libertà per loro, uomini che se ne fregheranno e continueranno a pensare che le donne siano “roba loro”. E poi assisteremo a cose belle e cose brutte, leggeremo frasi intelligenti, buffe e commoventi, ma anche frasi stupide e insultanti, e luoghi comuni, bizzeffe di luoghi comuni da rimanerci con la pelle accapponata.
Io non farò nulla di tutto questo. Voglio solo fermarmi un attimo a guardare il percorso già fatto e pensare che quello che ci rimane da fare non sarà tanto in salita, ma solo se saremo sempre in più a percorrerlo. E non da sole.

giovedì 7 marzo 2013

Di equini, lasagne e altre cose ritrovate

Quando è uscita la polemica sulla carne di cavallo nelle lasagne, non riuscivo quasi a credere alle mie orecchie (o ai miei occhi). Perché stavo lavorando su un libro che parlava praticamente dello stesso argomento e che è stato scritto più di cent'anni fa.
Però a ben pensarci le similitudini con la cronaca attuale si fermano qui, come vedremo.
Il libro non è famoso, e l'autore lo è anche meno. Joseph Nelson Eldridge Oldiron è in qualche modo mio parente, perché era il marito della sorella del mio bisnonno.
Naturalmente non l'ho mai conosciuto, come non ho mai conosciuto il mio bisnonno, ma in famiglia ne avevo sentito parlare come di una figura quasi mitologica, perché era “l'inglese che rapì zia Sofia”. Zia Sofia era di Sorrento (come il bisnonno) ed era bellissima, come raccontano tutti.
Joseph era uno studioso e scrittore inglese, nato nel 1950, e aveva incontrato la zia a Pompei. In realtà non l'aveva rapita, dal momento che dopo averla sposata si era stabilito pure lui a Sorrento “facendo di Sofia una donna onesta”, come si diceva all'epoca, e probabilmente anche piuttosto benestante. Però la famiglia del bisnonno non approvò mai la loro unione, perché aveva già promesso la zia a un altro uomo, quindi per i miei questo matrimonio non desiderato era un vero e proprio rapimento.
Joseph, come ho detto, era uno scrittore, e anche molto prolifico. Però non desiderò mai la fama e non cercò mai di pubblicare le sue opere, che si limitò a comporre per il piacere proprio e al massimo di vicini e parenti. Non le pubblicò forse perché non se ne sentiva all'altezza, o forse perché, come tanta gente dell'epoca, pensava che scrivere per soldi fosse volgare o indegno.
In famiglia gli scritti di Joseph non erano mai stati tenuti in gran conto, forse per via di quell'aura di disprezzo con cui era stato circondato, suo malgrado, dai parenti di zia Sofia. Però tempo fa, mentre aiutavo la nonna a sgombrare il solaio, trovai un vecchio baule in cui erano stati riposti i suoi taccuini.
Joseph e Sofia non ebbero figli, perciò le scartoffie di Joseph passarono alla mia famiglia, che le mise da parte senza leggerle, per i motivi che vi ho detto.
Sempre grazie a quel disprezzo malcelato, nonna non ha avuto nulla in contrario a regalarmi il baule, e io ne sono stata ben lieta perché dentro vi ho trovato moltissime cose interessanti.
Ho cominciato dalla traduzione di questo libretto, Equini e lasagne, perché è breve e divertente.
Il protagonista, Gaetano Immacolato Santagrotta detto Don Gagà, è un avventuriero di Sorrento che, affamato di vita e di avventure, se ne parte in giro per il mondo, fino ad arrivare in Sudafrica nel bel mezzo della corsa ai diamanti dell'Ottocento. La poca fortuna che incontra non basta a scoraggiarlo, finché non s'imbatte in Genevieve, detta Sugarplum, una cantante bellissima e dalle grandi pretese. Per conquistare la sua bella, Gaetano intraprende la carriera culinaria, ma il passo dal successo alla disfatta è fin troppo breve.
Voglia di riscatto, quindi, amore, una passione che fa travisare la realtà e perfino una velata critica ecologista, esemplificata dalla fine dei quagga e dall'opinione che il protagonista ha delle risorse naturali. Questi gli ingredienti (è il caso di dirlo) del libretto.
Il racconto è narrato con passione, ma anche con un notevole senso dell'umorismo, il che mi fa pensare che possa contenere tracce autobiografiche della vita di Joseph. Per esempio, come non scorgere nei complimenti fatti alla bella Genevieve, quegli stessi apprezzamenti che lui doveva aver fatto davvero alla sua Sofia?
La pubblicazione di questo ebook è un esperimento da parte mia, perché non so quanto il pubblico possa prender bene un autore allo stesso tempo vecchio e nuovo. Diciamo che io... ci spero.
A me è piaciuto, sarebbe bello se piacesse anche a voi.

Qui potete trovare info per acquistare “Equini e lasagne, ovvero della deprecabile scomparsa del quagga”.

Incipit del libro

mercoledì 6 marzo 2013

Five stars and sputniks

Mi hanno detto che quelli del movimento cinque stelle di Beppe Grillo non vogliono essere presi in giro.
Sì, insomma, si offendono quando si fa qualche battuta ironica su di loro.
Ora io, a parte quelle due-trecento cose, non ho nulla contro il M5S.
Però quando mi si diece di non prendere in giro qualcuno perché sennò s'offende... ecco, è un invito. Io DEVO prenderlo in giro. Per forza. Se c'è una cosa divertente nella vita, è prendere in giro le persone prive di spirito autoironico.
Quindi se e/o quando verrà la dittatura Cinquestellina io entrerò nella lista nera per questa vignetta e finirò al confino, che posso dirvi? Almeno mi sarò levata una soddisfazione.


Otto marzo... forse che m'arzo?

E rieccoci qua! Fra due giorni è l'otto marzo.
E come per tante (diciamo tutte) le feste più o meno comandate, anche quest'anno assisteremo alla solita ondata di luoghi comuni.
Vi prego di notare un fatto: io non ce l'ho con l'otto marzo, sono i luoghi comuni che mi irritano!
Detto ciò, per esorcizzare la marea, mi porto avanti (ecco perché, come vedete, ho tinto tutto di un bel color rosa-femminile). Seguendo la teoria di “attaccare prima di essere attaccati”, e scriverò una filastrocchina per chi si accinge a tuffarsi in una vasca di mimose e petali di rosa (e magari slip maschili leopardati).

Filastrocca da donna a uomo...
Evviva le donne perché
Son gentili, pazienti e amabili
Sempresempresempre
(Ma starò parlando anche di me?)
Evviva le donne perché
San sopportare fatiche indicibili
Tipo vivere accanto a te
Evviva le donne perché
Per pensare usano il cervello
Mica il pisello
Come fai te (licenza poetica)
Evviva le donne perché
Si sacrificano per farti contento
Rinunciando pure a ogni ornamento
Che tu poi le guardi e dici “Embé?
'Sta cozza dovrei avere accanto a me?”
Evviva le donne perché
Con le loro sante manine
Sanno farti cose divine...
Io sto parlando delle tartine,
Che avevi capito, né?
Evviva le donne perché
Anche se le chiami tritamaroni
Non ti ricambiano con quei paroloni
Semmai con uno sputo in un occhio, tiè!
Evviva le donne perché
Son delicate, fragili, gracili
Il che non vuol dire che siano facili,
Ma neppure poi troppo difficili.
Non l'hai capita questa, eh?
Evviva le donne perché
Tu le vedi come mogli, madri, fidanzate,
Amanti, serve, amate e odiate,
Ma non è che girino intorno a te... (come evidentemente credi)
Evviva le donne perché
Vogliono essere amate, cercate,
Ma soprattutto rispettate
Come persone, non come cliché.

martedì 5 marzo 2013

La nascita di Napoli

PARTHENOPE di Matilde Serao

Mancano a noi le nere foreste del Nord, le nere foreste degli abeti, cui l'uragano fa torcere i rami come braccia di colossi disperati; mancano a noi le bianchezze immacolate della neve, che danno la vertigine del candore; mancano le rocce aspre, brulle, dai profili duri ed energici; manca il mare livido e tempestoso. Sui nostri prati molli di rugiada non vengono le elfi a danzare la ridda magica; non discendono dalle colline le peccatrici walkirie, innamorate degli uomini; non compaiono al limitare dei boschi le roussalke bellissime; qui non battono i panni bagnati le maledette lavandaie, perfide allettatrici del viandante; il folletto kelpis non salta in groppa al cavaliere smarrito. Lontano una natura quasi ideale, nebulosa, malinconica ispiratrice agli uomini di strani deliri della fantasia: qui una natura reale, aperta, senza nebbie, ardente, secca, eternamente lucida, eternamente bella che fa vivere l'uomo nella gioia e ne dolore della realtà. Lontano, si sogna nella vita; qui si vive in un sogno, che è vita. Lontano i solitari e tristi piaceri dell'immaginazione che crea un mondo sovrasensibile; qui la festa completa di un mondo. E le nostre leggende hanno un carattere profondamente umano, profondamente sensibile che fa loro superare lo spazio e il tempo. Soltanto, per ascendere ad una suprema idealità, hanno bisogno del misticismo: di quel misticismo che è la follia dell'anima, inebriata omicida del corpo, di quel misticismo che è fede, pensiero, amore, arte, attraverso tutti i secoli, in ogni paese; quel misticismo che è il massimo punto divino, a cui può giungere un'esistenza eccessivamente umana. Ma a questo dramma, a questa vittoria cruenta dello spirito sul corpo, vien dietro un altro dramma, più umano, più potente, dove il pensiero ed il sentimento non vincono la vita, ma vi si compenetrano e vi si fondono; dove l'uomo non uccide una parte di sé, per la esaltazione dell'altra, ma dove tutto è esistenza, tutto è esaltazione, tutto è trionfo: il dramma dell'amore. Le nostre leggende sono l'amore, e Napoli è stata creata dall'amore.

* * * * *

Cimone amava la fanciulla greca. Invero ella era bellissima: era l'immagine della forte e vigorosa bellezza, che ebbero Giunone e Minerva, cui veniva rassomigliata. La fronte bassa e limitata di dea, i grandi occhi neri, la bocca voluttuosa, la vivida candidezza della carnagione, lo stupendo accordo della grazia e della salute, in un corpo ammirabile di forme, la composta serenità della figura, la rendevano tale. Si chiamava Parthenope, che nel dolce linguaggio greco significa Vergine. Ella godeva sedere sull'altissima roccia, fissando il fiero sguardo sul mare, perdendosi nella contemplazione delle glauche lontananze dell'Ionio. Non si curava del vento marino che le faceva sventolare il peplo, come ala di uccello spaventato; non udiva il sordo rumore delle onde che s'incavernavano sotto la roccia, scavandola poco a poco. L'anima cominciava per immergersi in un pensiero: oltre quel mare, lontano lontano, dove l'orizzonte si curva, altre regioni, altri paesi, l'ignoto, il mirabile, l'indefinibile. In questo pensiero la fantasia della fanciulla si allargava, si allargava in un sogno senza confine, la fanciulla sentiva ingrandire la potenza del suo spirito e, sollevata in piedi, le pareva di toccare il cielo col capo, di potere stringer nel suo immenso amplesso tutto il mondo. E anche questi sogni svaniscono. Ora ella ama Cimone, con l'unico, possente, imperante amore della fanciulla che si trasforma in donna.

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Nella notte di estate, notte bionda e bianca di estate, Cimone parla all'amata:
“Parthenope, vuoi tu seguirmi?”
“Partiamo, amore.”
“Tuo padre ti rifiuta al mio talamo, o soavissima: Eumeo vuole per tuo sposo e suo figliuolo. Ami tu Eumeo?”
“Amo te, Cimone.”
“Lode a Venere santa e grazie a te, sua figliuola! Pensa dunque quale nero incubo sarebbe la vita divisi, lontani... e come, giovani ancora, aneleremmo alle cupe ombre dello Stige. Vuoi tu partire meco, Parthenope?”
“Io sono la tua schiava, amore.”
“Pensa: dimenticare il volto di tuo padre, cancellare dalle tue guance il bacio delle sorelle, fuggire le dolci amiche, abbandonare il tuo tetto...”
“Partiamo, Cimone.”
“Partire, o dolcissima, partire per un viaggio lungo, penoso, sul mare traditore, per una via ignota, ad una meta sconosciuta; partire senza speranza di ritorno; affidarsi ai flutti, sempre nemici degli amanti; partire per andare lontano lontano, molto lontano, in terre inospitali, brune, dove è eterno l'inverno, dove il pallido sole si fascia di nuvole, dove l'uomo non ama l'uomo, dove non sono giardini, non sono rose, non sono templi...”
Ma nei grandi occhi neri di Parthenope è il raggio di un amore insuperabile, e nella sua voce armoniosa vibra la passione:
“Io t'amo”, ella dice, “partiamo.”

* * * * *

Sono mille anni che il lido imbalsamato li aspetta. Mille primavere hanno gittata sulle colline la ricchezza inesausta, rinascente, della loro vegetazione... e dalla montagna sino al mare, si spande il lusso immenso, sfolgorante di una natura meravigliosa. Nascono i fiori, olezzano, muoiono, perché altri più belli sfoglino i loro petali sul suolo; milioni e milioni di piccole vite fioriscono, anche esse per amare, per morire, per rinascere ancora. Da mille anni attende il mare innamorato, da mille anni attendono le stelle innamorate. Quando i due amanti giungono al lido divino, un sussulto di gioia fa fremere la terra, la terra nata per l'amore, che senza amore è destinata a perire, abbruciacchiata e distrutta dal suo desiderio. Parthenope e Cimone vi portano l'amore. Dappertutto, dappertutto essi hanno amato. Stretti l'uno all'altra, essi hanno portato il loro amore sulle colline, dalla bellissima eternamente fiorita di Poggioreale alla stupenda di Posillipo; essi hanno chinato i loro volti sui crateri infiammati, paragonando la passione incandescente della natura alla passione del loro cuore; essi si sono perduti per le oscure caverne, che rendevano paurosa la spiaggia Platamonia; essi hanno errato nelle vallate profonde, che dalle colline scendevano al mare; essi hanno percorso la lunga riva, la sottile cintura che divide il mare dalla terra. Dovunque hanno amato. Nelle stellati notti d'estate Parthenope si è distesa sull'arena del lido, fissando lo sguardo nel cielo, carezzando con la mano la chioma di Cimone, che è al suo fianco; nelle lucide albe di primavera hanno raccolto, nel loro splendido giardino, fiori e baci, baci e fiori inesauribili; ne' tramonti di porpora dell'autunno, nella stagione che declina, hanno sentito crescere in essi più vivo l'amore; nelle brevi e belle giornate invernali, hanno sorriso senza mestizia, pur anelando alla novella primavera. La pianta secolare ha prestata la sua ombra benevola a tanta gioventù; la contorta e bruna pietra dei Campi Flegrei non ha lacerato il gentil piede di Parthenope; il mare si è fatto bonario ed ha cantato loro la canzoncina d'amore; la natura leale non ha avuto agguati per essi; sugli azzurri orizzonti si è delineato il profilo bellissimo della fanciulla, il profilo energico del garzone. Quando essi si sono chinati ed hanno baciato la terra benedetta, quando hanno alzato lo sguardo al cielo, un palpito ha loro risposto e fra l'uomo e la natura si è affermato il profondo, l'invincibile amore che li lega. Napoli, la città della giovinezza, invocava Parthenope e Cimone: ricca ma solitaria; ricca ma mortale; ricca ma senza fremiti. Parthenope e Cimone hanno creata Napoli immortale.
Ma il destino non è compito ancora. Più alto scopo ha l'amore di Parthenope. Ecco: dalla Grecia giunsero, per amor di lei, il padre e le sorelle, e amici e parenti che vennero a ritrovarla; ecco: sino al lontano Egitto, sino alla Fenicia, corre la voce misteriosa di una plaga felice, che una vergine ha scoperta, una plaga felice dove nella bella festa dei fiori e dei frutti, nella dolcezza profumata dell'aria, trascorre beatissima la vita. Sulle fragili imbarcazioni accorrono colonie di popoli lontani che portano seco i loro figliuoli, le immagini degli dei, gli averi; alla capanna del pastore si erge accanto quella del pescatore; la rozza e primitiva arte dell'agricoltura, le industrie manuali appena sul nascere compiono fervidamente la loro opera. Prima sorge sull'altura il villaggio e grado a grado guadagna la pianura; un'altra collina se ne va sopra un'altra collina, ed il secondo villaggio si unisce col primo; le vie si tracciano, la fabbrica, dalle mura cui tutti concorrono, rinserra nel suo cerchio una città. Tutto questo ha fatto Parthenope.
Lei volle la città. Non più fanciulla, ma ora donna completa e perfetta madre: dal suo forte seno dodici figliuoli hanno vista la luce, dal suo forte cuore è venuto il consiglio, la guida, il soffio animatore. È lei la donna per eccellenza, la madre del popolo, la regina umana e clemente, da lei si appella la città, da lei la legge, da lei il costume, da lei il costante esempio della fede e della pietà. Due templi sorgono a dee, invocate protettrici della città: Cerere e Venere. Ivi si prega, ivi, attraverso gli intercolunni, sale al cielo il fumo dell'olibano. Una pace profonda e costante è nel popolo, su cui regna Parthenope; ed il lavorio operoso dell'uomo, non è che un affettuoso invito alla natura benigna. La più bella delle civiltà, quella dello spirito innamorato; il più grande dei sentimenti, quello dell'arte; la fusione dell'armonia fisica con l'armonia morale; l'amore efficace, fervido, onnipossente: è l'ambiente vivificante della nuova città. Quando Parthenope viene a sedere sulla roccia del monte Echia, quando essa fissa lo sguardo sul Tirreno, più fido dell'Ionio, l'anima sua si assorbisce in un pensiero. La regione ignota è raggiunta, il mirabile, l'indefinibile, ecco è creato, è reale, è opera sua. E mentre la fantasia si allarga in un sogno senza confine, Parthenope sente giganteggiare il suo spirito e sollevata in piedi, le pare di toccare il cielo col capo, di stringere il mondo in un immenso amplesso.

* * * * *

Se interrogate uno storico, o buoni e amabili lettori, vi risponderà che la tomba della bella Parthenope è sull'altura di San Giovanni Maggiore dove, allora, il mare lambiva il piede della montagnola. Un altro vi dirà che la tomba di Parthenope è sull'altura di Sant'Aniello, verso la campagna, sotto Capodimonte. Ebbene, io vi dico che non è vero. Parthenope non ha tomba, Parthenope non è morta. Ella vive splendida, giovane e bella, da cinquemila anni. Ella corre ancora sui poggi, ella erra sulla spiaggia, ella si affaccia al vulcano, ella si smarrisce nelle vallate. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori; è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene; è lei che rende irresistibile il profumo dell'arancio; è lei che fa fosforeggiare il mare. Quando nelle giornate dell'aprile un'aura calda c'inonda di benessere, è il suo alito soave; quando nelle lontananze verdine del bosco di Capodimonte vediamo comparire un'ombra bianca allacciata ad un'altra ombra, è lei col suo amante; quando sentiamo nell'aria un suono di parole innamorate, è la sua voce che le pronunzia; quando un rumore di baci indistinto, sommesso, ci fa trasalire, sono i baci suoi; quando un fruscio di abiti ci fa fremere, al memore ricordo, è il suo peplo che striscia sull'arena, è il suo piede leggiero che sorvola; quando, di lontano, noi stessi ci sentiamo abbruciare alla fiamma di una eruzione spaventosa, è il suo fuoco che ci abbrucia. È lei che fa folleggiare la città: è lei che la fa languire ed impallidire d'amore: è lei che la fa contorcere di passione nelle giornate violente di agosto. Parthenope la vergine, la donna, non muore, non muore, non ha tomba, è immortale, è l'amore. Napoli è la città dell'amore.