martedì 5 marzo 2013

La nascita di Napoli

PARTHENOPE di Matilde Serao

Mancano a noi le nere foreste del Nord, le nere foreste degli abeti, cui l'uragano fa torcere i rami come braccia di colossi disperati; mancano a noi le bianchezze immacolate della neve, che danno la vertigine del candore; mancano le rocce aspre, brulle, dai profili duri ed energici; manca il mare livido e tempestoso. Sui nostri prati molli di rugiada non vengono le elfi a danzare la ridda magica; non discendono dalle colline le peccatrici walkirie, innamorate degli uomini; non compaiono al limitare dei boschi le roussalke bellissime; qui non battono i panni bagnati le maledette lavandaie, perfide allettatrici del viandante; il folletto kelpis non salta in groppa al cavaliere smarrito. Lontano una natura quasi ideale, nebulosa, malinconica ispiratrice agli uomini di strani deliri della fantasia: qui una natura reale, aperta, senza nebbie, ardente, secca, eternamente lucida, eternamente bella che fa vivere l'uomo nella gioia e ne dolore della realtà. Lontano, si sogna nella vita; qui si vive in un sogno, che è vita. Lontano i solitari e tristi piaceri dell'immaginazione che crea un mondo sovrasensibile; qui la festa completa di un mondo. E le nostre leggende hanno un carattere profondamente umano, profondamente sensibile che fa loro superare lo spazio e il tempo. Soltanto, per ascendere ad una suprema idealità, hanno bisogno del misticismo: di quel misticismo che è la follia dell'anima, inebriata omicida del corpo, di quel misticismo che è fede, pensiero, amore, arte, attraverso tutti i secoli, in ogni paese; quel misticismo che è il massimo punto divino, a cui può giungere un'esistenza eccessivamente umana. Ma a questo dramma, a questa vittoria cruenta dello spirito sul corpo, vien dietro un altro dramma, più umano, più potente, dove il pensiero ed il sentimento non vincono la vita, ma vi si compenetrano e vi si fondono; dove l'uomo non uccide una parte di sé, per la esaltazione dell'altra, ma dove tutto è esistenza, tutto è esaltazione, tutto è trionfo: il dramma dell'amore. Le nostre leggende sono l'amore, e Napoli è stata creata dall'amore.

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Cimone amava la fanciulla greca. Invero ella era bellissima: era l'immagine della forte e vigorosa bellezza, che ebbero Giunone e Minerva, cui veniva rassomigliata. La fronte bassa e limitata di dea, i grandi occhi neri, la bocca voluttuosa, la vivida candidezza della carnagione, lo stupendo accordo della grazia e della salute, in un corpo ammirabile di forme, la composta serenità della figura, la rendevano tale. Si chiamava Parthenope, che nel dolce linguaggio greco significa Vergine. Ella godeva sedere sull'altissima roccia, fissando il fiero sguardo sul mare, perdendosi nella contemplazione delle glauche lontananze dell'Ionio. Non si curava del vento marino che le faceva sventolare il peplo, come ala di uccello spaventato; non udiva il sordo rumore delle onde che s'incavernavano sotto la roccia, scavandola poco a poco. L'anima cominciava per immergersi in un pensiero: oltre quel mare, lontano lontano, dove l'orizzonte si curva, altre regioni, altri paesi, l'ignoto, il mirabile, l'indefinibile. In questo pensiero la fantasia della fanciulla si allargava, si allargava in un sogno senza confine, la fanciulla sentiva ingrandire la potenza del suo spirito e, sollevata in piedi, le pareva di toccare il cielo col capo, di potere stringer nel suo immenso amplesso tutto il mondo. E anche questi sogni svaniscono. Ora ella ama Cimone, con l'unico, possente, imperante amore della fanciulla che si trasforma in donna.

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Nella notte di estate, notte bionda e bianca di estate, Cimone parla all'amata:
“Parthenope, vuoi tu seguirmi?”
“Partiamo, amore.”
“Tuo padre ti rifiuta al mio talamo, o soavissima: Eumeo vuole per tuo sposo e suo figliuolo. Ami tu Eumeo?”
“Amo te, Cimone.”
“Lode a Venere santa e grazie a te, sua figliuola! Pensa dunque quale nero incubo sarebbe la vita divisi, lontani... e come, giovani ancora, aneleremmo alle cupe ombre dello Stige. Vuoi tu partire meco, Parthenope?”
“Io sono la tua schiava, amore.”
“Pensa: dimenticare il volto di tuo padre, cancellare dalle tue guance il bacio delle sorelle, fuggire le dolci amiche, abbandonare il tuo tetto...”
“Partiamo, Cimone.”
“Partire, o dolcissima, partire per un viaggio lungo, penoso, sul mare traditore, per una via ignota, ad una meta sconosciuta; partire senza speranza di ritorno; affidarsi ai flutti, sempre nemici degli amanti; partire per andare lontano lontano, molto lontano, in terre inospitali, brune, dove è eterno l'inverno, dove il pallido sole si fascia di nuvole, dove l'uomo non ama l'uomo, dove non sono giardini, non sono rose, non sono templi...”
Ma nei grandi occhi neri di Parthenope è il raggio di un amore insuperabile, e nella sua voce armoniosa vibra la passione:
“Io t'amo”, ella dice, “partiamo.”

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Sono mille anni che il lido imbalsamato li aspetta. Mille primavere hanno gittata sulle colline la ricchezza inesausta, rinascente, della loro vegetazione... e dalla montagna sino al mare, si spande il lusso immenso, sfolgorante di una natura meravigliosa. Nascono i fiori, olezzano, muoiono, perché altri più belli sfoglino i loro petali sul suolo; milioni e milioni di piccole vite fioriscono, anche esse per amare, per morire, per rinascere ancora. Da mille anni attende il mare innamorato, da mille anni attendono le stelle innamorate. Quando i due amanti giungono al lido divino, un sussulto di gioia fa fremere la terra, la terra nata per l'amore, che senza amore è destinata a perire, abbruciacchiata e distrutta dal suo desiderio. Parthenope e Cimone vi portano l'amore. Dappertutto, dappertutto essi hanno amato. Stretti l'uno all'altra, essi hanno portato il loro amore sulle colline, dalla bellissima eternamente fiorita di Poggioreale alla stupenda di Posillipo; essi hanno chinato i loro volti sui crateri infiammati, paragonando la passione incandescente della natura alla passione del loro cuore; essi si sono perduti per le oscure caverne, che rendevano paurosa la spiaggia Platamonia; essi hanno errato nelle vallate profonde, che dalle colline scendevano al mare; essi hanno percorso la lunga riva, la sottile cintura che divide il mare dalla terra. Dovunque hanno amato. Nelle stellati notti d'estate Parthenope si è distesa sull'arena del lido, fissando lo sguardo nel cielo, carezzando con la mano la chioma di Cimone, che è al suo fianco; nelle lucide albe di primavera hanno raccolto, nel loro splendido giardino, fiori e baci, baci e fiori inesauribili; ne' tramonti di porpora dell'autunno, nella stagione che declina, hanno sentito crescere in essi più vivo l'amore; nelle brevi e belle giornate invernali, hanno sorriso senza mestizia, pur anelando alla novella primavera. La pianta secolare ha prestata la sua ombra benevola a tanta gioventù; la contorta e bruna pietra dei Campi Flegrei non ha lacerato il gentil piede di Parthenope; il mare si è fatto bonario ed ha cantato loro la canzoncina d'amore; la natura leale non ha avuto agguati per essi; sugli azzurri orizzonti si è delineato il profilo bellissimo della fanciulla, il profilo energico del garzone. Quando essi si sono chinati ed hanno baciato la terra benedetta, quando hanno alzato lo sguardo al cielo, un palpito ha loro risposto e fra l'uomo e la natura si è affermato il profondo, l'invincibile amore che li lega. Napoli, la città della giovinezza, invocava Parthenope e Cimone: ricca ma solitaria; ricca ma mortale; ricca ma senza fremiti. Parthenope e Cimone hanno creata Napoli immortale.
Ma il destino non è compito ancora. Più alto scopo ha l'amore di Parthenope. Ecco: dalla Grecia giunsero, per amor di lei, il padre e le sorelle, e amici e parenti che vennero a ritrovarla; ecco: sino al lontano Egitto, sino alla Fenicia, corre la voce misteriosa di una plaga felice, che una vergine ha scoperta, una plaga felice dove nella bella festa dei fiori e dei frutti, nella dolcezza profumata dell'aria, trascorre beatissima la vita. Sulle fragili imbarcazioni accorrono colonie di popoli lontani che portano seco i loro figliuoli, le immagini degli dei, gli averi; alla capanna del pastore si erge accanto quella del pescatore; la rozza e primitiva arte dell'agricoltura, le industrie manuali appena sul nascere compiono fervidamente la loro opera. Prima sorge sull'altura il villaggio e grado a grado guadagna la pianura; un'altra collina se ne va sopra un'altra collina, ed il secondo villaggio si unisce col primo; le vie si tracciano, la fabbrica, dalle mura cui tutti concorrono, rinserra nel suo cerchio una città. Tutto questo ha fatto Parthenope.
Lei volle la città. Non più fanciulla, ma ora donna completa e perfetta madre: dal suo forte seno dodici figliuoli hanno vista la luce, dal suo forte cuore è venuto il consiglio, la guida, il soffio animatore. È lei la donna per eccellenza, la madre del popolo, la regina umana e clemente, da lei si appella la città, da lei la legge, da lei il costume, da lei il costante esempio della fede e della pietà. Due templi sorgono a dee, invocate protettrici della città: Cerere e Venere. Ivi si prega, ivi, attraverso gli intercolunni, sale al cielo il fumo dell'olibano. Una pace profonda e costante è nel popolo, su cui regna Parthenope; ed il lavorio operoso dell'uomo, non è che un affettuoso invito alla natura benigna. La più bella delle civiltà, quella dello spirito innamorato; il più grande dei sentimenti, quello dell'arte; la fusione dell'armonia fisica con l'armonia morale; l'amore efficace, fervido, onnipossente: è l'ambiente vivificante della nuova città. Quando Parthenope viene a sedere sulla roccia del monte Echia, quando essa fissa lo sguardo sul Tirreno, più fido dell'Ionio, l'anima sua si assorbisce in un pensiero. La regione ignota è raggiunta, il mirabile, l'indefinibile, ecco è creato, è reale, è opera sua. E mentre la fantasia si allarga in un sogno senza confine, Parthenope sente giganteggiare il suo spirito e sollevata in piedi, le pare di toccare il cielo col capo, di stringere il mondo in un immenso amplesso.

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Se interrogate uno storico, o buoni e amabili lettori, vi risponderà che la tomba della bella Parthenope è sull'altura di San Giovanni Maggiore dove, allora, il mare lambiva il piede della montagnola. Un altro vi dirà che la tomba di Parthenope è sull'altura di Sant'Aniello, verso la campagna, sotto Capodimonte. Ebbene, io vi dico che non è vero. Parthenope non ha tomba, Parthenope non è morta. Ella vive splendida, giovane e bella, da cinquemila anni. Ella corre ancora sui poggi, ella erra sulla spiaggia, ella si affaccia al vulcano, ella si smarrisce nelle vallate. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori; è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene; è lei che rende irresistibile il profumo dell'arancio; è lei che fa fosforeggiare il mare. Quando nelle giornate dell'aprile un'aura calda c'inonda di benessere, è il suo alito soave; quando nelle lontananze verdine del bosco di Capodimonte vediamo comparire un'ombra bianca allacciata ad un'altra ombra, è lei col suo amante; quando sentiamo nell'aria un suono di parole innamorate, è la sua voce che le pronunzia; quando un rumore di baci indistinto, sommesso, ci fa trasalire, sono i baci suoi; quando un fruscio di abiti ci fa fremere, al memore ricordo, è il suo peplo che striscia sull'arena, è il suo piede leggiero che sorvola; quando, di lontano, noi stessi ci sentiamo abbruciare alla fiamma di una eruzione spaventosa, è il suo fuoco che ci abbrucia. È lei che fa folleggiare la città: è lei che la fa languire ed impallidire d'amore: è lei che la fa contorcere di passione nelle giornate violente di agosto. Parthenope la vergine, la donna, non muore, non muore, non ha tomba, è immortale, è l'amore. Napoli è la città dell'amore.

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