mercoledì 13 marzo 2013

Turandot - una storia lirica

Comincio ricordandovi che si dice Turandot. Con la T. Non Turandò, senza, come fosse francese. Perché quella di Turandot non è una fiaba francese ma orientale.
Si tratta di una fiaba nobile, perché è quella che ha fornito la trama a una delle nostre opere liriche più famose: la Turandot di Puccini.
E in effetti mi riesce difficile, se non impossibile, parlare della bella e sdegnosa principessa cinese senza pensare all'opera di Giacomo Puccini.
Turandot è l'ultima opera del Maestro di Torre del Lago, che morì nel 1924 lasciandola incompiuta. Il compositore napoletano Franco Alfano la portò a termine, e la prima rappresentazione si ebbe alla Scala di Milano il 25 aprile 1926, il direttore d'orchestra era Arturo Toscanini. Quella sera, nel mezzo del terzo atto, Toscanini fermò l'orchestra, posò la bacchetta, si volse verso il pubblico e disse: “Qui finisce l'opera, perché a questo punto il Maestro è morto.”
In realtà pare che non abbia pronunciato esattamente queste parole, ma la leggenda così vuole.
Soprattutto la Turandot di Puccini è nota per l'aria “Nessun dorma”, che è stata cavallo di battaglia di Luciano Pavarotti e resta una delle arie operistiche più famose di tutti i tempi.
L'opera di Puccini è ispirata alla commedia di Carlo Gozzi, che s'inseriva nella tradizione della Commedia dell'Arte italiana e conteneva anche personaggi quali Pantalone e Brighella, che non fanno propriamente parte della tradizione orientale.
Per il teatro poi ne esistono una versione di Schiller e una di Brecht. Quindi vedete che stiamo puntando in alto.
Nel 1992 la cantante Irene Fargo portò al Festival di Sanremo una canzone intitolata “Come una Turandot”, dalla quale si evinceva che chi aveva scritto il brano non conoscesse l'opera, perché pensava che Nessun dorma lo cantasse Turandot e non, come in realtà è, il principe Calaf.
Tutte le versioni di Turandot sono ispirate a un racconto contenuto ne “I mille e un giorno”, raccolta settecentesca di fiabe persiane a cura del francese François Pétis de la Croix.
Oh, fatto questo preambolo storico, che cosa ne viene a noi? Come molte fiabe, quella di Turandot è una storia d'amore. È la storia di una donna bella e crudele, difficile da conquistare. Anzi, impossibile da conquistare se non per il prescelto, che invece ci riesce piuttosto facilmente.
È la storia di un colpo di fulmine, di indovinelli da risolvere, di un nome da svelare.
Ma adesso andiamo a incominciare il racconto, altrimenti finisce che vi dico tutto qui, e poi voi cosa leggete?



Turandot
una storia lirica


Il giovane principe Khalaf, figlio di Timurtasch, re del khanato di Astrakan, e della principessa Elmaze, era il principe più bello, forte, intelligente e amabile che si fosse mai visto da secoli. Non solo era un abile guerriero, ma anche un uomo molto colto, sapiente, ferrato in ogni argomento all'epoca conosciuto, dalla matematica alla poesia, dall'astronomia alla teologia, dalla musica alla fisica. E poi era coraggioso, leale, gentile, premuroso... come dite? Qual è il suo numero di telefono? Spiacente, ma non sono autorizzata a passarvi informazioni di questo tipo.
Un brutto giorno il sultano del Carisma, che non era un'acqua di colonia, pensò bene di chiedere un tributo annuale al regno di Timurtasch. Khalaf, che oltre a essere bello era anche orgoglioso, non volle abbassare la cresta, perciò si mise a capo dell'esercito, radunò i suoi alleati, e partì in guerra contro il sultanato di Carisma.
Nella fiaba persiana questa parte qua è lunghissima. Ci sono battaglie, guerre, fughe, incontri, avventure e sventure, e perfino altre due storie indipendenti che altra gente racconta al nostro bel principe. Noi tagliamo corto, perché tanto l'unica parte che c'interessa è quella della storia tra Khalaf e Turandot. Vi spiego in breve l'essenziale, però, perché ha una sua importanza.
Nonostante il valore e il coraggio, Khalaf perse la guerra e il suo esercito venne decimato. Lui si salvò e, assieme ai genitori, fuggì da Astrakan e vagò per il vasto mondo mediorientale confidando nella Provvidenza e aspettando tempi migliori. Il viaggio fu lungo ed estenuante, Timurtasch ed Elmaze erano anziani e facevano fatica ad affrontare disagi, stenti, miserie, lunghi cammini tra deserti ed aspre rupi. Spesso erano tentati di lasciarsi andare, ma sempre Khalaf, con la forza della sua fede e della sua devozione, riusciva a salvarli. Ogni tanto incontravano gente che li aiutava, e allora le speranze sembravano rinascere. Ogni tanto finivano ridotti allo stremo, e allora Timurtasch cominciava a pensare che solo la morte fosse desiderabile. A un certo punto i tre si unirono a una carovana di cammellieri e raggiunsero i territori della tribù di Berlas, dove Khalaf fu costretto a chiedere l'elemosina per procurarsi il pane per i suoi genitori. Era il culmine dell'umiliazione per lui, che era sempre stato un principe fiero e consapevole del proprio valore. Ma lo fece per amore, e questo nobilitò il suo gesto anziché degradarlo.
Ecco chi è il principe Khalaf. Non il tenore, generalmente panzone e flaccido, che immaginate quando pensate alla Turandot. Ah, prima che facciate commenti... non so se ci avete fatto caso, ma questo NON è il riassunto dell'opera di Puccini. Giusto per mettere in chiaro le cose, eh. Che poi magari qualcuno pensa che lo sia e, per esempio, sbaglia la tesi di laurea perché cade in questo errore.
Riprendiamo la storia.
Un giorno, mentre era alla vana ricerca di un lavoro anche umile per mantenere i genitori, Khalaf trovò un bellissimo falco da caccia, e comprese che era il falco preferito del khan di Berlas, che era stato smarrito proprio il giorno prima. Fu il suo primo colpo di fortuna. Khalaf riportò il falco al khan, che per riconoscenza prese a benvolerlo e gli promise qualunque cosa come ricompensa.
Khalaf fece due richieste: la prima, che i suoi genitori potessero avere un alloggio decoroso tutto per loro e venissero mantenuti tra gli agi, perché erano anziani e meritavano rispetto. La seconda, domandò per sé cavallo ed equipaggiamento per mettersi in viaggio e cercare fortuna altrove. Gli era venuto in mente di poterla trovare in Cina, e perciò desiderava recarsi lì.
Il khan accettò, e accolse volentieri Timurtasch ed Elmaze, anche se non sapeva chi fossero, perché Khalaf aveva raccontato che erano due mercanti che i predoni avevano spogliato di tutti i loro beni. Durante la fuga, infatti, il principe aveva imparato a tenere celata la propria identità e quella dei suoi genitori, perché sapeva che il sultano di Carisma li stava cercando per ucciderli, e che pochissimi avrebbero avuto l'ardire di tener testa alle sue imposizioni.
Vi pare una cosa lunga fin qui? Eppure rispetto all'originale sono stata brevissima...
L'indomani, abbigliato come un principe e in groppa a uno splendido destriero, Khalaf si mise in viaggio per la Cina. E qui perfino la fiaba originale afferma che non gli capitò nulla di emozionante fin quando non giunse alle porte di Pechino.
Però prima di entrare in città voleva informarsi sugli usi e costumi locali. Iniziativa lodevole, no?
Incontrò una vedova benestante, le domandò ospitalità e si fece raccontare tutto da lei.
“Il re della Cina”, raccontò la donna, “è molto saggio, generoso e amato.”
“Dev'essere un re felice, allora.”
“No, perché purtroppo è afflitto da un grande dolore. Devi sapere, figliolo, che il Re non ha avuto la fortuna di avere un erede maschio. Ha un'unica figlia femmina che lui ama come le sue pupille, ma che è anche per lui fonte di grande dolore. La principessa Turandot ha diciannove anni ed è la donna più bella che si sia mai vista o immaginata da secoli. È così bella che neppure i pittori migliori riescono a renderne la bellezza, nonostante la loro arte. Eppure quelle misere rappresentazioni sono già così belle in sé, che nessuno può ammirare un ritratto di Turandot senza innamorarsene.”
Ora, io mi sono sempre chiesta se questo fascino fatale agisse solo sui principi e sugli uomini di alto lignaggio. Perché se fosse stato un potere valido per tutti, come mai di tanti pittori che la ritrassero (osservandola quindi dal vero) neppure uno s'innamorò di lei? Possibile che fossero tutti omosessuali?
Voi che ne dite?
Khalaf non volle credere alle parole della vedova. “Probabilmente”, disse, “i pittori nel ritrarla l'abbelliscono, ecco perché sembra così irresistibile a tutti.”
“E invece no”, rispose decisa la donna, “Perché io la conosco di persona, e mia figlia lavora con lei, e posso assicurarti che dal vivo è mille volte più bella che in ritratto. E già in ritratto è così bella da non resisterle. Però ha un grave difetto: è anche molto intelligente e colta.”
La cultura e l'intelligenza in una donna erano dunque considerati difetti. Vediamo perché.
“Turandot ha sempre studiato moltissimo, è molto saggia e sapiente. Non c'è materia che le sia ignota. Matematica, astronomia, poesia, filosofia, musica, perfino teologia. La sua cultura va oltre quanto si addica a una donna. Ha una cultura da uomo”, e ci credo quindi che tutti la temevano: bella, intelligente e colta, in grado di tenere testa agli uomini. Un mix micidiale!
“Due anni fa”, continuò la vedova, “il principe del Tibet la chiese in moglie, e il Re voleva accettare. Ma lei rifiutò, e quando suo padre puntò i piedi Turandot si ammalò. Era così grave che i medici pensavano potesse morirne. 'E se la forzate a sposare il principe', dissero al Re, 'morirà sicuramente'. Il Re ama moltissimo la principessa e perciò si arrese alle sue richieste. 'Padre', gli disse Turandot, gemendo di dolore, 'Io non mi voglio sposare perché detesto gli uomini e non voglio perdere la mia libertà. Potrei morirne.' 'Ma non puoi impedire che altri principi ti chiedano in moglie', rispose il Re. 'Allora facciamo così. Poniamo loro degli ostacoli insormontabili. Chi vuole sposarmi dovrà affrontare una prova davanti al Consiglio dei Saggi. Io porrò delle domande. Chi risponderà correttamente vincerà la mia mano. Ma chi sbaglierà verrà condannato a morte il giorno seguente.' 'E se qualcuno rispondesse bene?' 'Farò in modo che questo non sia possibile.' 'Ma così nessuno più chiederà la tua mano!' 'È appunto quel che voglio!', rispose Turandot. Il Re credeva veramente che nessuno avrebbe mai più chiesto la mano di Turandot, per questo motivo era abbastanza tranquillo quando giurò alla figlia di mantenere quell'accordo. Invece si sbagliava, perché la bellezza di Turandot è tale che da allora moltissimi principi e sultani hanno sfidato la morte pur di tentare almeno di conquistare la bella principessa.”
La vedova sostenne che i principi affrontavano la sfida pur conoscendone le possibili, e letali, conseguenze perché Turandot era così bella che per lei avrebbero fatto qualunque cosa. Secondo me invece lo facevano perché erano convinti che i quesiti posti da una donna dovessero essere per forza semplicissimi. Insomma, com'era possibile che una donna fosse più intelligente e colta di loro?
Erano passati due anni, e mai nessuno dei pretendenti era riuscito a risolvere i quesiti di Turandot. Tutti erano stati condannati a morte, e il Re era disperato. Ogni volta che arrivava un nuovo candidato lui cercava di dissuaderlo, ma non c'era mai niente da fare. Aveva quasi preso a detestare Turandot, che sembrava invece godere di quei tributi di sangue. Per lei nessun uomo era degno neppure di pensare di poterla avvicinare!
Figuriamoci sposarla!
“Ma forse”, azzardò Khalaf, “tutti i pretendenti erano stupidi o ignoranti”, anche lui pensava che una donna non potesse essere tanto colta e intelligente, forse.
“Al contrario, erano tutti principi nobili e ben educati. L'ultima vittima risale a ieri. E proprio stasera ci sarà l'esecuzione pubblica, in piazza.”
Questa storia incuriosì oltremodo Khalaf, che decise pertanto di assistere all'esecuzione e quella sera si recò in piazza.
Che folla c'era! Le strade straripavano di pechinesi curiosi...
M'è venuta male, rifacciamo.
Che folla c'era! Tutta Pechino era scesa in strada, perché quel giovane principe che stava per essere giustiziato suscitava la compassione di chiunque. Doveva avere a malapena diciott'anni. Era bello, fiero, dal volto fresco. Che peccato che dovesse morire così!
Indossava una veste bianca e attorno al capo aveva una corona di fiori e foglie di cipresso intrecciati, e anche un nastro celeste che stava a significare che non era un criminale né un nemico, perché i criminali e i nemici erano obbligati a portare un nastro rosso. Il ragazzo venne condotto ai piedi di un altare, e un alto dignitario prese a recitare la formula di rito:
“Principe, non è forse vero che eri a conoscenza dei termini dell'editto regale prima di chiedere la mano della Principessa?”
“Ne ero a conoscenza.”
“E non è forse vero che eri stato informato di tutte le possibili conseguenze?”
“Ne ero stato informato dettagliatamente e sapevo a cosa andavo incontro.”
“E non è forse vero che il Re ha cercato di impedirti di sottoporti alla prova, ma nonostante questo tu hai voluto proseguire lo stesso?”
“È vero.”
“E dunque, Principe, se adesso perderai la vita la responsabilità è interamente tua, non del Re né della principessa Turandot.”
“Mi assumo interamente la responsabilità della mia fine. Sono stato io a sceglierla e il mio sangue non ricadrà sulle loro Altezze Reali.”
Detto questo, il boia estrasse una sciabola e mozzò di netto la testa al bel principe.
Quando il corpo venne portato via tra grandi onori e la folla se ne fu andata, Khalaf vide un anziano che piangeva disperato, ed evidentemente era uno che aveva voluto bene al principe giustiziato.
“E come avrei potuto non volergliene?”, disse il vecchio quando Khalaf lo interrogò, “Ero il suo tutore. Povero principe di Samarcanda! Con che cuore racconterò a suo padre la fine del suo unico, adorato figliolo?”
“Dunque quello era il principe di Samarcanda. Ma come fece a innamorarsi della principessa Turandot? Samarcanda è lontana da Pechino.”
“Suo padre voleva che prendesse moglie, e perciò fece venire un pittore che aveva con sé diversi ritratti delle principesse disponibili. Erano tutte molto belle, ma non appena il principe vide il ritratto di Turandot disse che non avrebbe amato altre che lei, anche a costo di morirne. E così è stato. Ecco, figliolo, ecco quel ritratto maledetto. Io non lo voglio più vedere.”
Il vecchio porse a Khalaf una pergamena arrotolata, poi se ne andò piangendo. Era buio, ormai, troppo buio per vedere bene il ritratto, e troppo buio anche per ritrovare la strada di casa. Così Khalaf si ritirò in un angolo tranquillo, a meditare sul da farsi. Cosa doveva fare? Da un lato era estremamente curioso di vedere quel ritratto fatale che aveva stregato e condotto a una fine prematura tanti ragazzi e tanti uomini. Da un altro... aveva paura. Paura di cascarci anche lui. E se anche lui si fosse innamorato di Turandot? E se anche lui avesse perso la testa e si fosse dato in pasto alla rovina? Trascorse tutta la notte a meditare su questo angoscioso dilemma poi, come spesso capita, quando il sole sorse e rischiarò il mondo con la sua luce, molte paure si dileguarono.
“Ma che sciocchezze!”, si disse, “Come può un ritratto essere tanto pericoloso? Questa storia della maledizione è sicuramente una superstizione, un'esagerazione. I principi che si sono fatti abbagliare erano senz'altro degli stupidotti.”
E srotolò la pergamena.
E vide il ritratto.
E... SBONK!
Ma chi era quella divina creatura ritratta? Poteva davvero essere Turandot? Così bella? Così soave? Così sublime? La somma di tutte le perfezioni umane?
Insomma, non appena vide quel ritratto Khalaf seppe di essere perdutamente innamorato della ragazza. E per lei avrebbe fatto qualunque cosa. Anche gettarsi tra le fiamme. Anche farsi tagliare la testa a sangue freddo, come aveva fatto il principe di Samarcanda. Anzi, era perfino una gioia farsi torturare per lei. Nessun sacrificio era troppo, se affrontato per lei.
Eccolo là, l'uomo tutto d'un pezzo. E questo per un ritratto!
Ditemi voi se questa non è un'esagerazione letteraria. E anche fastidiosa, secondo me. Ci credo che Turandot fosse così inacidita con gli uomini. Ma come, dopo tutta la fatica che lei aveva fatto per istruirsi, gli uomini ancora guardavano solo l'aspetto esteriore? Tra l'altro, in quel ritratto era pure vestita. Anzi, si vedeva solo la faccia.
A ogni modo, Khalaf decise di chiedere la mano di Turandot. E del resto lui non era più colto e sapiente di tanti altri principi? Ma sì, certamente lui aveva più possibilità di farcela.
Con questo spirito ottimista, Khalaf tornò a casa dalla vedova e le raccontò le sue intenzioni.
La vedova non la prese benissimo, anzi. Desiderò di non avergli mai parlato di Turandot. Però ormai il danno era fatto, e anche lei sapeva che quando un principe si innamorava di Turandot non c'era nulla da fare per fargli cambiare idea.
Khalaf si recò al Palazzo Reale (all'epoca la Città Proibita ancora non esisteva) ed espose la sua richiesta.
Il Primo Ministro cercò di fargli cambiare idea. Il Re stesso cercò di fargli cambiare idea. Anzi, lo supplicò quasi in ginocchio di cambiare idea, perché Khalaf gli riusciva straordinariamente più simpatico di tutti gli altri pretendenti. Lo rimbalzarono per tre giorni di seguito, sperando che cambiasse idea. Ma fu tutto inutile, Khalaf era sempre più convinto.
“È un tipo in gamba, sapete?”, disse il Primo Saggio al Re, “L'ho interrogato un po', ed è un ragazzo veramente colto e sapiente, molto più preparato di tutti gli altri. Se c'è qualcuno che può farcela a superare il test di Turandot, quello è sicuramente lui.”
Un barlume di speranza si accese nel cuore del Re, anche se forse sperare era troppo perfino nella migliore delle ipotesi.
Venne il giorno della Grande Prova, e Khalaf venne condotto davanti al Gran Consiglio dei Saggi. Sull'altare di fronte a lui salirono il Re, pieno di angoscia e apprensione, e Turandot. La principessa portava abiti di seta bianca e dorata, e aveva il viso coperto da un velo, così non era possibile scorgerla in volto.
“Principe”, disse il Primo Saggio, “stai affrontando questa prova, che può avere esiti fatali per te, in tutta libertà. Nessuno ti ha costretto. Se avrà esiti letali sarà per tua libera scelta, e non per colpa del Re e della principessa Turandot. Ne sei consapevole?”
“Ne sono consapevole, e se dovessi morirne sarà solo responsabilità mia”, rispose Khalaf a testa alta.
“Ti verranno poste delle domande. Se non darai la risposta giusta entro sette minuti verrai condannato  a morte. Ne sei consapevole?”
“Ne sono consapevole.”
“Sei ancora in tempo per tirarti indietro. Puoi ancora salvarti. Vuoi andartene adesso?”
“No. Per nessun motivo al mondo.”
Ci sono quiz più ansiogeni di questo, lo so, però almeno lì non c'è la vita in ballo.
“Si dia il via alla prova”, disse il Primo Saggio.
La Principessa si fece avanti, srotolò una pergamena e disse, lentamente: “Ecco il primo quesito: chi è colui che appartiene alla Terra tutta, che di tutto il Mondo è amico, e che non ha eguali?”
“Il sole”, rispose rapido Khalaf, “Sì, il sole. Illumina tutta la Terra, di tutto il Mondo è amico e sicuramente non ha eguali.”
“È giusto”, mormorarono stupiti i saggi.
La Principessa s'irrigidì e le sue pallide dita strinsero la pergamena un po' più forte. “Benissimo, straniero”, disse, “Ecco il secondo quesito: qual è quella madre che dopo aver messo al mondo i suoi figli, li divora tutti quando sono cresciuti?”
“È il mare”, si affrettò a rispondere Khalaf, “Sì, è il mare, che genera i fiumi, ma poi li rimangia... perché poi i fiumi si riversano nel mare. È giusto, no?”
Era giusto.
E voi starete pensando che queste famose prove mortali siano solo indovinelli cretini. Sulla Settimana Enigmistica se ne trovano di più complessi. E avete ragione, ma dovete calcolare i tempi. E anche il fatto che chi riportò la storia forse non aveva l'intelligenza e la cultura di Turandot e non sapeva elaborare prove più dotte di così. Ve la ricordate quella di Edipo e della Sfinge di Tebe, no? Nessuno riusciva a risolverla a parte Edipo, poi venne fuori che era una cosa banale come “Indovina chi è quell'animale che la mattina cammina con quattro zampe, il pomeriggio con due e la sera con tre”. E se avesse chiesto: “Son verde verdino, son tondo e piccino, vivo in un baccello e mi chiamo...” l'avreste indovinato?
Insomma, come fu e come non fu, Khalaf aveva risolto i primi due enigmi e ora Turandot era decisamente irritata, perché temeva che potesse risolvere anche il terzo, nonché ultimo. Perciò fece una cosa scorretta. State a sentire.
“Qual è”, disse, “quell'albero le cui foglie sono nere da un lato e bianche dall'altro?”, e non appena ebbe pronunciata la domanda sollevò il velo che le nascondeva il volto. E la sua bellezza era così sfolgorante che Khalaf ne rimase abbagliato e si dimenticò di rispondere.
Ed era proprio questo il fine di Turandot: ammaliare Khalaf affinché il poverino non facesse in tempo a rispondere al quesito.
“Ebbene?”, lo incoraggiò il Primo Saggio, “Coraggio, ragazzo. Qual è la risposta?”
Khalaf si scosse e si morse le labbra per tornare in sé. “Scusa, mia Principessa”, disse, “ma la tua bellezza è così abbagliante che ho dimenticato la domanda. Potresti ripetermela, cortesemente?”
“Qual è”, ripeté Turandot, che ormai si sentiva la vittoria in pugno, “quell'albero le cui foglie sono nere da un lato e bianche dall'altro?”
“Ma è l'anno, mia Principessa”, rispose prontamente Khalaf, “Le foglie sono le giornate. Notte da un lato e giorno dall'altro.”
“La risposta è esatta”, disse il Primo Saggio.
E Turandot, pallida dalla rabbia, dovette convenire che era così. “Presentati domani sera”, gli disse, “per la seconda prova.”
Ma qui il Re subodorò qualcosa di strano. “Quale seconda prova? Non ci sono seconde prove. C'è una prova sola. Se hai altre domande, falle adesso.”
“Non ne ho”, ammise Turandot a denti stretti, “Avevo preparato solo queste tre domande. Ero certa che non sarebbe stato in grado di rispondere. Se torna domani...”
“Che intenzioni hai?”, la interruppe il Re, “Fargli domande all'infinito finché non sbaglia? No, cara mia, ti ho dato fin troppa corda. I patti erano che se uno ti avesse dato le risposte giuste, tu l'avresti sposato. Questo bravo giovane ha dato le risposte esatte, tu ora devi mantenere l'impegno. Altrimenti vuol dire che hai ingannato tutti, anche quelli che sono morti per te. E non fingere di star male, signorinella. Non attacca più. Io ho mantenuto il giuramento fin dove era valido, ma ormai non ti devo più niente, perché questo nobile ragazzo ha risposto correttamente a tutte le tue domande. Il mio giuramento è sciolto.”
Povera Turandot! Il suo trucco le si era rivoltato contro. Ma insomma, se una non voleva sposarsi cosa doveva inventarsi per mantenere la propria indipendenza? Perché nelle fiabe, e non solo lì, si dà per scontato che le donne vogliano sposarsi per forza, ma non è detto che sia sempre così. Quando un uomo non vuole sposarsi, una scappatoia la trova sempre. Ma quando una donna non vuole sposarsi è molto, molto più complicato. Perché per molti sarebbe una scelta molto, molto eccentrica.
Turandot impallidì, e Khalaf pensò di giocare la carta dell'altruismo. Badate, lui finse soltanto di venirle incontro, ma in realtà le propose un gioco nel quale era certo di poter vincere.
“Se la principessa non mi vuole sposare”, disse, “io non voglio costringerla. Facciamo perciò un'altra prova: se Turandot risponderà alla mia domanda, io non reclamerò i miei diritti su di lei e me ne andrò senza pretendere di sposarla.”
Tutti pensarono che fosse un gesto assai nobile, per uno che aveva appena rischiato la vita pur di vincere la mano della Principessa.
“Ebbene”, disse Khalaf, “Principessa, tu devi dirmi il nome di quel principe che ha patito tante disgrazie, che è arrivato addirittura a mendicare il pane, ma che adesso è colmo di gloria e di felicità.”
Turandot impallidì e meditò, poi disse, tesa come non mai: “È una domanda difficile. Concedimi una notte di tempo. Domattina, all'alba, ti risponderò.”
Il Re stava per protestare, ma Khalaf lo interruppe: “D'accordo. Domattina, all'alba, tu mi darai la risposta o mi sposerai.”
Il Re era preoccupato, e prese in disparte Khalaf: “Che hai fatto?”, gli disse, “Mia figlia è molto colta. Sicuramente sa il nome di questo principe.”
“Impossibile”, rise Khalaf, “Perché quel principe sono io, e qui nessuno sa come mi chiamo. Non mi sono mai rivelato ad anima viva, perciò la bella Turandot non indovinerà mai e sarà costretta a sposarmi.”
Il Re fu tanto felice di saperlo, che organizzò una festa in onore del principe straniero.
E intanto Turandot, nelle sue stanze, era letteralmente fuori di sé.
Piangeva, si strappava i capelli, si graffiava la faccia e gridava.
“Maledetto, maledetto. Ma come ha fatto a risolvere i miei enigmi? Nessuno c'era mai riuscito prima. Brutto schifoso infame!”
E ancora giù a piangere e lamentarsi, col trucco che le si scioglieva sul volto e le ancelle che cercavano inutilmente di calmarla.
“Ma Principessa, non fare così”, le dicevano, “in fondo il principe straniero è così un bell'uomo. E poi è intelligente. Non potresti desiderare sposo migliore di lui.”
“In effetti”, ammise Turandot, “quel ragazzo mi piace molto. Quando l'ho visto il cuore mi ha fatto un balzo nel petto e ho quasi sperato che mi desse le risposte giuste. Ma poi quando me le ha date... non so, mi ha fatto troppa rabbia. Non voglio sposarmi perché lo decide qualcun altro. Voglio sposarmi perché lo decido io.”
Capite adesso l'inghippo? Non è che una (o uno) debba essere ostile alle nozze per partito preso. Quel che scoccia, è dovervi sottostare senza avere possibilità di scelta. Perché l'ha deciso qualcun altro. Oppure perché l'hanno deciso le convenzioni. O, peggio ancora, la moda. Non siete d'accordo anche voi? Oppure siete già tutte lì a prenderle le misure per l'abito bianco, convinte che l'unica felicità stia in un mazzo di fiori d'arancio?
“Ma che problema c'è?”, dissero le ancelle, “Tu domani rispondi all'enigma e sei libera di nuovo, no?”
“Rispondere all'enigma? E chi cavolo sa rispondere a quell'enigma?”
“Ma tu dicevi... che per domani all'alba...”
“E non lo capite quando uno bluffa? Io mi sono solo presa del tempo... per morire di disperazione per conto mio, prima di arrendermi a un uomo.”
“Dunque non sai chi sia quel principe?”
“Ma certo che lo so. È lui quel principe. Però non so come accidenti si chiami. E non so come scoprirlo.”
“Quello”, disse un'ancella, “forse lo so io.”
E qui sfumiamo e torniamo a Khalaf che, ebbro di gloria e libagioni, se ne stava andando nelle sue stanze a palazzo. Poi, felice come non mai, alzò lo sguardo al cielo stellato e tra sé e sé intonò un canto. E lo sapete qual era quel canto? Eccolo:
Nessun dorma! Nessun dorma!
Tu pure, o Principessa,
nella tua fredda stanza
guardi le stelle
che tremano d'amore e di speranza...
Ma il mio mistero è chiuso in me,
il nome mio nessun saprà!
No, no, sulla tua bocca lo dirò,
quando la luce splenderà!
Ed il mio bacio scioglierà il silenzio
che ti fa mia.
Dilegua, o notte! Tramontate, stelle!
Tramontate, stelle! All'alba vincerò!
Vincerò!
Vinceròòòòòòòòòòòòòòò!!!!!!!!!!!!!!!!!
Scusate, mi sono lasciata trasportare dalla commozione melodrammatica.
Come dicevo, Khalaf era convinto che nessuno sapesse il suo nome, e in effetti nessuno lo sapeva. Ma quel che non si sa lo si può scoprire, come dicevano i vecchi antichi.
Quando entrò nella sua stanza, Khalaf vi trovò una bella donna. Che non era lì per sedurlo, come starete pensando.
“Perdona il mio ardire, Principe”, disse la donna, “io sono una schiava, lo so. E non è usanza che una donna si avvicini tanto alle stanze degli uomini, ma questa è un'occasione speciale”, e gli raccontò che lei era una principessa straniera, che il suo regno era in lotta con la Cina, che questo regno aveva perso e che lei era stata fatta prigioniera, “e tutto questo per garantirti che essendo di nobile ascendenza non sono qui per cercare di imbrogliarti. Io sono schiava qui da tanto tempo e sono diventata ancella di Turandot. Praticamente la sua migliore amica. Ma tu mi sei simpatico. Sei buono e onesto. Per questo debbo avvisarti di un fatto grave: Turandot è così infuriata con te che pur di non sposarti ha deciso di farti assassinare. Domani, mentre ti recherai al Consiglio, i suoi eunuchi ti uccideranno.”
Oh, che brutta notizia! Il nostro bel principe sapeva che Turandot non era esattamente esultante all'idea di sposarlo, ma al punto da farlo ammazzare... no, questo mai. Questo era il colpo al cuore peggiore che potesse ricevere.
“Ma che male ho fatto? Io, il principe Khalaf, figlio di Timurtasch... perché gli Dei mi detestano a tal punto?”, e pianse, si strappò i capelli e si disperò.
“Io ti consiglio di scappare”, suggerì la donna.
E per un buon quarto d'ora anche Khalaf pensò che la fuga fosse l'unica soluzione. Ma poi ci ripensò.
“No”, disse, “sia quel che sia, affronterò il mio destino. La vita senza Turandot è una vita vuota. Meglio morire per ordine suo che vivere senza di lei.”
Visto che tempra? Il principe della Bella Addormentata era semolino in confronto a lui.
La notte passò per Khalaf tra incubi disperati e sogni di speranza. Poi l'indomani, all'alba, gli eunuchi di Turandot andarono a prenderlo per portarlo nella sala del Consiglio.
A ogni passo lui si aspettava di venire ammazzato, ma non successe nulla di tutto ciò.
Voi l'avete capito, vero, che non era questo l'inghippo che Khalaf doveva temere?
Come il giorno prima, Turandot si presentò sul pulpito accanto al padre.
“Dunque, figlia mia, sei pronta ad arrenderti?”
“Neanche per sogno”, disse Turandot, imperturbabile, “io conosco la risposta. Il nome dal principe è Khalaf, figlio di Timurtasch.”
Khalaf ne fu così sorpreso che impallidì e svenne. Ma certo! Non c'era nessun complotto per assassinarlo. La schiava era semplicemente riuscita a fargli rivelare il suo nome. Un trucco subdolo, se vogliamo, ma efficace.
“Però”, disse Khalaf quando si riprese, “la risposta non è corretta. Ti avevo chiesto il nome di un principe colmo di gloria e di felicità. Io invece sono colmo di tristezza e di disperazione.”
“Non importa”, rispose Turandot, “perché quando mi avevi fatto la domanda, ieri, eri colmo di gloria e di felicità ed è questo quel che conta.”
I Saggi dovettero ammettere che Turandot aveva ragione, e Khalaf si preparò ad abbandonare la Cina sconfitto e col cuore a pezzi.
“Ho indovinato, però”, aggiunse in quella Turandot, “questo non vuol dire che non voglia sposarti lo stesso.”
Cosa? Ma allora... era un bluff anche questo?
Turandot sorrise a Khalaf, il sorriso più dolce che si possa immaginare. “Ti sposerò”, gli disse, “ma solo perché l'ho deciso io, non una stupida legge.”
E qui a momenti svenne il Re, perché il suo sogno più grande era proprio di vedere Turandot sposata e con tanti figlioletti che lo chiamavano nonno.
Le nozze si celebrarono subito, prima che qualcuno cambiasse idea, e l'amore tra Khalaf e Turandot fu ardente e appassionato. E del resto i due si somigliavano tanto.
Poi ci furono le altre formalità: Khalaf recuperò i genitori e diede loro la bella notizia e quindi, grazie all'aiuto dell'esercito cinese, affrontò il sultano del Carisma e lo vinse, così recuperò il proprio regno e lo riconsegnò al re suo padre e cose così.
E quindi finalmente Khalaf e la sua adorata Turandot furono liberi di trascorrere una vita felicissima insieme... in biblioteca.
Bello, no?

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